Il boom degli eurofobici, una reazione alla decennale
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rivolta delle élite
Sicuri che dietro il boom annunciato dei partiti populisti alle elezioni per il Parlamento di Bruxelles ci sia soltanto l’insurrezione sconclusionata di milioni di cittadini europei? E se invece di un velleitario assalto al potere degli euroburocrati, i consensi per i vari Beppe Grillo, Nigel Farage e Marine Le Pen segnalassero piuttosto una reazione difensiva a fronte di un’altra e più pericolosa rivolta già in corso? E’ plausibile infatti, per usare le categorie inventate dallo storico statunitense Christopher Lasch (m. 1994), che anche nel nostro continente siano state le élite a rivoltarsi per prime, a secedere lentamente dalle masse, perdendo – più o meno volutamente – il contatto con la gente normale. “Quella di oggi è certamente qualificabile come una rivolta delle masse che reagiscono però a una lunga ribellione delle élite contro la politica”, dice al Foglio Giovanni Orsina, storico dell’Università Luiss, autore del saggio “Il berlusconismo nella storia d’Italia”, edito da Marsilio e in via di pubblicazione in lingua inglese.
La ribellione delle élite europee, secondo Orsina, avrebbe finora preso la forma di “tre ondate tecnocratiche” che hanno ristretto il campo di gioco della politica, ingenerando in questo modo un sentimento di frustrazione diffuso tra i cittadini. “Dopo il 1945, in occidente, si era andato affermando il vecchio progetto liberale, sintetizzabile con la globalizzazione del capitalismo di mercato. Questo fu però temperato all’inizio da interventi governativi per limitare certi effetti di questa globalizzazione d’antan, soprattutto per mezzo del welfare state. Negli anni Settanta tale modello, tra spesa pubblica in eccesso e inflazione in aumento vertiginoso, è andato fuori controllo”. Così nei paesi anglosassoni emergono personalità come Margaret Thatcher e Ronald Reagan che incarnano il paradosso di “una iperpolitica che sceglie di ritrarsi”. In Europa le forme di arretramento della politica sono un po’ diverse: a una prima ondata “tecnocratica” rappresentata da una maggiore fiducia nei meccanismi di mercato, segue “lo sviluppo di istituzioni internazionali come l’Unione europea, con un potere crescente attribuito ai tecnici della globalizzazione. A livello domestico, ci sono i processi di giuridicizzazione delle nostre democrazie e l’espansione delle Authority di regolamentazione. Infine la terza ondata ha garantito preminenza ai tecnici delle tecnologie in senso stretto, siano esse mediche, fisiche, ingegneristiche”, dice l’editorialista della Stampa. Elementi diversi, accomunati dal fatto di avere “reso più fragile il rapporto delle popolazioni con le istituzioni democratiche”, e che per varie ragioni concorrono a una “fuga dalla democrazia”. Un esempio: mettetevi nei panni di un cittadino italiano che oggi veda i propri standard di vita influenzati da una decisione (o da una non decisione) della Banca centrale tedesca, sulla quale però quel cittadino italiano non ha il minimo controllo o influenza. “C’era da attendersi una qualche forma di reazione all’idea di non potere più tenere politicamente sotto controllo il proprio futuro”. Per sostenerlo non c’è bisogno di essere dei fautori della democrazia diretta, dice il professore. “A tutto questo si aggiunga che i risultati dei tecnocrati sembrano da qualche tempo tutt’altro che garantiti. Gli economisti falliscono, l’abbiamo visto, e in più nemmeno si mettono d’accordo su dove hanno fallito…”.
A livello europeo, appunto, più ancora che a livello nazionale, questo processo è evidente, mancando qualsiasi “meccanismo credibile di controllo democratico. D’altronde una comunità politica non si crea artificialmente”. Orsina invita sorridendo a compiere un parallelo storico. Da una parte prendete il conservatore britannico Benjamin Disraeli e il liberale William Gladstone che tra 1867 e 1884, allargando il suffragio elettorale, confrontandosi pubblicamente sui quotidiani che proprio in quegli anni diventavano popolarissimi, “crearono uno spazio politico nazionale”. Adesso invece pensate al socialdemocratico Martin Schulz e al conservatore Jean-Claude Juncker che nel 2014 si sfidano per la guida della Commissione europea, per di più solo in teoria visto che ci vorrà comunque l’assenso dei governi per decidere la guida dell’esecutivo di Bruxelles: “Nemmeno hanno una lingua per parlare a tutti gli europei!”.
Secondo Orsina, dunque, la ribellione delle élite europee, questo loro processo di emancipazione progressiva dal confronto democratico, è stata una prova di forza, dettata dalla volontà di svincolarsi da “un’opinione pubblica che secondo loro non avrebbe capito”, ma poi anche un segno di debolezza: “Non avevano i mezzi per far procedere l’integrazione su binari politici. Con la costruzione della Banca centrale europea, per esempio, sono stati sottratti poteri alle Banche centrali nazionali. Tuttavia finora nessuno è riuscito a replicare lo stesso schema con la politica tout court, quella intesa come conservazione di spazi di potere”. L’integrazione politica, già negli anni 50, si fermò alle porte dei ministeri della Difesa europei con il fallimento della Ced (Comunità europea di difesa): “E da allora la sovranità politica nazionale, pur data per moribonda da queste élite, è sempre tornata a mordere nel momento in cui veniva troppo disturbata”. Procedere nell’integrazione percorrendo la via surrettizia offerta dalla tecnocrazia, insomma, è stato possibile solo fino a un certo punto. Le classi dirigenti europee hanno comunque “preferito insistere. Hanno compiuto scelte politiche, come quella di creare la moneta unica, pensando di poter ridurre il dibattito democratico a qualcosa di secondario. Tanto poi sarebbero arrivati gli effetti positivi di quelle scelte”.
Oggi, in attesa più o meno fiduciosa di quegli effetti positivi, questa lunga “fuga dalla democrazia” offre il fianco a una reazione. E considerato che prima dei tecnocrati “avevano fallito anche le grandi ideologie novecentesche – dice Orsina – ecco che il desiderio di riappropriarsi politicamente del proprio futuro non può che assumere forme populistiche, generare un agglomerato incoerente di esasperazioni e microistanze, alimentare la ‘politica del no’”. Perché il problema della maggior parte dei populismi odierni, conclude lo storico, resta quello di “riuscire a offrire sì un segnale chiaro e forte, ma pur sempre un segnale esclusivamente negativo”. A queste elezioni europee, dunque, a un’”offerta” politica monca fa da pendant una “domanda” politica legittima ma perlopiù inconcludente.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Marco Valerio Lo Prete – @marcovaleriolp, 23 maggio 2014 - ore 06:59