Concorso in mafia, reato vago. La complicità con i

mafiosi deve essere normata meglio di come è attualmente.

 E’ necessario perché il reato associativo è per natura diverso da quelli puntuali. Uno strumento per la “zona grigia” serve

Il concorso esterno, pur essendo uno strumento irrinunciabile per aggredire la cosiddetta “zona grigia”, rientra nel novero degli istituti più discussi del diritto penale. Non soltanto perché esso è abbastanza complicato già da un punto di vista tecnico-giuridico. A renderlo divisivo, polemogeno al punto da provocare ricorrenti guerre di religione nel circuito politico-mediatico è il fatto che questa imputazione, com’è noto, per lo più coinvolge imputati “eccellenti”, vale a dire politici, imprenditori o professionisti che hanno molto da perdere anche in seguito alla semplice apertura di un’indagine per un fatto così discreditante come la contiguità mafiosa.

Ma, innanzitutto, non è affatto vero – come da noti versanti si obietta – che il concorso esterno sarebbe una invenzione dei giudici “comunisti”. Piaccia o non piaccia, l’analisi storica della giurisprudenza evidenzia un dato incontrovertibile: sentenze favorevoli alla sua configurabilità esistono addirittura sin dal 1875, cioè da quando le Corti di cassazione erano ancora regionali. Il che non può sorprendere. La logica giuridica ha, infatti, da sempre come caratteristica di tendere a esplicitare quel che le norme scritte da sole non dicono, o non sono in grado di dire; e questo è inevitabile anche perché il diritto, non essendo un dispositivo onnisciente e automatico che si applica da sé, mai può fare a meno dell’opera sapiente degli interpreti che adattano le norme astratte (e perciò sempre incomplete!) alla inesauribile varietà dei casi concreti.

Orbene: l’operazione logico-giuridica sottostante al concorso esterno riproduce, fondamentalmente, lo stesso schema concettuale che più in generale presiede al concorso di persone in un medesimo reato, cioè uno schema che ad esempio consente di estendere la punibilità a titolo di omicidio anche al complice che fornisce l’arma all’assassino. Così come la responsabilità concorsuale in quest’ultimo caso deriva – per dirla in “giuridichese” – dal combinato disposto della specifica norma sull’omicidio (art. 575 c. p.) con le più generali norme sul concorso di persone (artt. 110 e segg. c. p.), analogamente il concorso ad esempio del politico o dell’imprenditore nel reato di associazione mafiosa nasce dalla combinazione tra l’art. 416 bis c. p. che punisce detta associazione e ancora una volta le norme generali sul concorso criminoso. Attenzione, però. Nell’un caso come nell’altro, non sono le norme scritte a esplicitare con precisione l’insieme di tutti i presupposti in base ai quali taluno può essere chiamato a rispondere come concorrente in un reato: cosa deve intendersi per complice di un omicidio o per concorrente (esterno) di un’associazione criminale lo precisano, infatti, gli interpreti giurisprudenziali e dottrinali.

Il vero problema sta però nel fatto che nel caso del concorso nel reato associativo la questione diventa più complicata, e lo diventa perché questo tipo di reato ha una struttura assai più indeterminata a confronto di altre classiche figure criminose come l’omicidio o il furto e simili. Come intendere il concreto ed effettivo “contributo causale” alla vita o al rafforzamento di un’associazione criminosa, che, secondo le sezioni unite della Cassazione, costituisce il fondamento della punibilità del concorrente esterno? Per esemplificare: è sufficiente, perché si verifichi un rafforzamento dell’associazione, che un politico prometta un singolo appalto a un singolo mafioso, oppure è necessario dimostrare che l’appalto non solo è stato conseguito ma ha avuto per effetto di avvantaggiare l’intera organizzazione? Ancora più radicalmente, nell’ottica di un teorico del diritto è legittimo chiedersi: fino a che punto la “causalità”, quale categoria che ha a che fare con la realtà naturalistica, funge da paradigma adatto a concettualizzare le relazioni di reciproco favore che si instaurano tra le organizzazioni criminali e i loro sostenitori o fiancheggiatori esterni? Si tratta di una questione abbastanza complicata che, avendo a che fare con l’epistemologia dei concetti penalistici, qui può essere soltanto accennata. 

Nonostante la Cassazione si sia meritoriamente sforzata di supplire per via interpretativa alla congenita vaghezza del concorso esterno, una soluzione davvero appagante dei nodi problematici ancora sul tappeto è tuttavia ancora lontana. E si badi: questa insoddisfazione ha ragion d’essere tanto sul versante delle garanzie individuali, quanto su quello dell’efficacia repressiva, che non è meno importante. Non è allora sintomo di garantismo “peloso” riproporre l’interrogativo se non sia opportuno, piuttosto che confidare in un ulteriore affinamento giurisprudenziale, chiedere al legislatore di assumersi la responsabilità politica (come in uno Stato di diritto gli competerebbe!) di dire finalmente parole chiare sulle forme di contiguità effettivamente bisognose di punizione. Certo, come dimostra il recente e tormentato dibattito sulla riforma del reato di voto di scambio, riuscire a tipizzare per legge una materia così conflittuale come il concorso esterno si prospetta come un’impresa tutt’altro che agevole. Ma anche in questo caso non mancano proposte di tipizzazione, elaborate da commissioni ministeriali di studio o da singoli studiosi, che meriterebbero di essere prese in seria considerazione nelle competenti sedi politico-istituzionali.

FQ. di Giovanni Fiandaca (giurista) 15 aprile 2014 - ore 06:59, 

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