Cannabis, la nostra svolta pastorale. Lo spinello
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libero e il dibattito serio, anche se destabilizzante
“Sensible on weed”, titolava in un editoriale del 6 gennaio scorso la National review, la voce dei conservatori americani. “Sensible on weed”, ovvero si possono dire cose ragionevoli sulla marijuana, anche sorprendenti rispetto alla propria storia e ideologia. In America il dibattito sull’erba è ripartito il primo gennaio, quando il Colorado è diventato il primo stato a legalizzare l’uso della cannabis non solo per scopi medicali (modello Uruguay), come in molti stati americani, ma anche per scopi ricreativi. “La storia del proibizionismo della marijuana è un catalogo di compromessi non redditizi”, scrivono i conservatori, “miliardi spesi per la prevenzione e centinaia di migliaia di arresti ogni anno nell’infruttuoso tentativo di controllare un farmaco per lo più benigno, il cui consumo è ancora molto diffuso nonostante i nostri energici tentativi di vietarlo”. Certo, resta pur sempre una droga, ma “paragonato all’abuso e alla dipendenza da alcol, il consumo di marijuana è una preoccupazione minore per la salute pubblica”.
Il tema è poi arrivato anche qui da noi. L’assessore leghista della regione Lombardia, Gianni Fava, ha chiesto al Carroccio una riflessione sulla liberalizzazione della cannabis eccitando gli antiproibizionisti della prima ora (Nichi Vendola in primis) ma anche alcuni dei suoi, come il deputato leghista Gianluca Pini. Mentre Pina Picierno, deputata della segreria di Renzi del Pd, dice che “i tempi sono maturi per la legalizzazione”, il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, difende la legge Fini-Giovanardi perché “antiche questioni che l’evidenza scientifica e il buon senso avrebbero dovuto definitivamente chiudere tornano contro ogni logica”. Ma la verità è che una logica c’è. La liberalizzazione della marijuana è pur sempre una frontiera che crolla, e si porta dietro la stessa destabilizzazione che hanno, ai nostri occhi, le secolari novità sulla famiglia e sulla sessualità. Eppure, nell’epoca in cui Papa Francesco guida la chiesa, e la misericordia e la tenerezza possono lavare l’onta dei peccati più gravi, anche noi ci sentiamo tentati dalla pastoralità. Magari dopo i sessant’anni, quando i rischi sulla salute sono meno apprezzabili e le cellule neuronali non potrebbero che trarre beneficio da qualche minuto di serenità.
Ps. Questo editoriale non è stato scritto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
Il Foglio, 7 gennaio 2014 - ore 21:30