La vecchia guardia Ds mastica fiele e medita vendette
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antirenziane. “Matteo non è il Cav. e il Pd non è Forza Italia”,
dice Sposetti. I timori di Veltroni, il silenzio di D’Alema. Pagare dazio.
“Renzi non è Berlusconi, a lui non è concesso di fare tutto senza mai pagare dazio. Non è composto d’una luce immortale e d’un pingue portafoglio”. Ed è con un tono di saggia e allusiva condiscendenza che Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds, lui che ne ha viste tante – “sapeste che fatica spiegare Renzi ai compagni più anziani” – soppesa le mosse, le sbavature, i successi e la spavalderia mocciosa del suo giovane segretario, quello del “Fassina, chi?”, il ragazzino che non piace a Massimo D’Alema né a Giorgio Napolitano, quel Matteo Renzi che agli occhi di un uomo con la biografia di Sposetti deve apparire bizzarro, come selvaggio. “Con la fortuna sboccia la tracotanza”, sussurra Sposetti, una vita in politica, occhi che raggiano quel genere d’astuzia paziente e sorniona che si deve all’esperienza. Renzi è atteso da un percorso di guerra, e nel Pd lo sanno tutti. Le volpi che furono nel Pci-Pds-Ds osservano l’agenda con un moto di speranza nel cuore, mentre i meno imberbi tra i sostenitori di Renzi, come Walter Veltroni, aggrottano la fronte, perché Austerlitz fu un lampo, ma lo fu anche il disastro di Waterloo. E dunque le scadenze alimentano la vita agra del Pd, sospeso tra Letta e Renzi, leadership e tessere, vecchia e nuova guardia: la legge elettorale, la prima tornata delle amministrative, le elezioni regionali in Sardegna, poi le europee. E “bisogna vedere come andranno tutte queste cose”, mormora Stefano Fassina, ormai ricettivo come una sibilla, battagliero, leader morale dell’opposizione interna al bulletto di Firenze. E sembra di sentire come un rullio di tamburelli nelle notti insonni del partito che ha visto sostituiti, in segreteria, a Firenze, la propria bandiera e il proprio simbolo con la “R” di Renzi. E’ possibile l’ultimo colpo di coda degli sconfitti? Renzi spacca la sinistra? D’Alema tace arricciato attorno a se stesso e ai suoi baffi, così pure Anna Finocchiaro, e solo Rosy Bindi tenta ancora una battuta pungente che rivela la monocorde appassionata potenza d’una ossessione (“adesso vediamo come se la cava il piccolo Silvio”). Nessuno pronuncia la parola scissione, ma gli irrottamabili masticano solitari uno strano sentimento di rivincita.
“D’Alema resta un uomo intelligente, persino troppo”, ammette Roberto Giachetti, democratico e radicale, amico di Renzi. Il ricovero in ospedale di Pier Luigi Bersani e l’operazione (andata bene) cui è stato sottoposto l’ex segretario del Pd hanno suscitato una sincera mozione d’affetti nel partito e permesso dunque un abbraccio, almeno formale, nella guerra asimmetrica, confusa e violenta che s’indovina sotto una superficie già di suo parecchio increspata. Ma certo un motivo dev’esserci se Veltroni, che conosce e sempre ha temuto “l’intelligente” D’Alema, ancora adesso nei suoi colloqui privati con gli amici, e forse persino con lo stesso Renzi, si fa pensieroso. “Massimo non va sottovalutato né umiliato”, è il suo consiglio. E Veltroni si riferisce alla volontà più volte espressa dal segretario ragazzino di non candidare D’Alema nemmeno alle europee. Veltroni sa che il silenzio calcolato del suo vecchio e baffuto amico-nemico non promette niente di buono. La giovinezza, l’abitudine ai rischi mortali, la sensazione d’essere infine al sicuro e ormai quasi invulnerabile, tutto questo racchiude in sé un pericolo per Renzi. E gli irrottamabili, che non sono nati ieri e che ne hanno viste (e combinate) tante, sono ancora lì, indeboliti, forse resi marginali, ma in muta attesa di un’altra velenosa sbavatura come quel contundente “chi?” rivolto, sabato, con fare protervo a Fassina. “La scissione non ci sarà. Ma c’è chi, tra gli accantonati, forse ci spera e per cinismo ci proverà pure. Il guaio è che tra i giovani ex diessini, credendoci, qualcuno potrebbe anche seguire i consigli cinici dei vecchi e cattivi maestri”, dice uno dei deputati più vicini a Dario Franceschini. E l’allusione al vecchio D’Alema e al giovane Fassina sembra chiara. Anche Matteo Orfini, il leader dei giovani turchi, tra le righe d’un’intervista al Messaggero, preoccupato, ha detto all’incirca la stessa cosa: “Renzi deve smetterla con gli atteggiamenti provocatori”, cioè non deve dare agio a manovre crepuscolari che danneggerebbero tutti. E insomma la facilità inventiva di Renzi, se pure gli ha consentito di generare capolavori di marketing, di trionfare alle primarie, può anche prendergli la mano e spingerlo all’errore d’innescare una vendetta politica che, suggeriscono al Foglio alcuni membri anziani della vecchia Margherita, “sarebbe spacciata come difesa dell’identità e dei valori della sinistra violentata. E tanta gente ci starebbe”, in buona fede. La tracotanza si paga. Ed è forse anche per questo che Sposetti dice che “il Pd non è Forza Italia e Renzi non è Berlusconi”. Seduttore e cabarettista, Renzi assomiglia al Sultano di Arcore. Ma solo al Cavaliere, venditore e impresario di se stesso, è concesso di affermare e smentirsi, creare Letta e combattere Letta, sbagliare in acrobazia, sferrare contundenti buffetti padronali ai membri del suo partito, e senza mai soffrirne. E’ lui l’unica opzione di se stesso, è lui l’offerta politica, è lui l’ideologia, è lui il partito, dunque può fare tutto e tutto gli viene perdonato. Per Renzi non vale lo stesso principio. “E allora “deve stare attento”, dice Sposetti; “basta guasconate”, gli consiglia Orfini. E così tutto si fa davvero difficile, perché al fondo resta il dilemma sul destino del governo e sulla natura d’una legge elettorale che Renzi – guarda un po’ – deve discutere proprio con il suo doppio-sosia, il più anguillesco degli interlocutori, Silvio Berlusconi.
FQ. di Salvatore Merlo – @SalvatoreMerlo, 7 gennaio 2014 - ore 06:59