Notizie per Obama. Così lo Stato islamico ingoia

un pezzo d’Iraq in rivolta contro Baghdad

Nel governatorato di Anbar il primo ministro al Maliki reprime i sunniti e li spinge all’alleanza con gli estremisti

Venerdì 20 dicembre nel cielo di Baghdad si capisce che sta succedendo qualcosa di grosso: quindici elicotteri militari tutti assieme in volo verso occidente, verso il governatorato di Anbar. L’intelligence irachena ha ricevuto una soffiata dai suoi informatori e sa dove si nasconde lo sceicco Abu Bakr al Baghdadi, il capo dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (in arabo: ad Dawlah al Islamiyyah fi Iraq wa ash Sham, è un nome citato con frequenza sempre maggiore). Il giorno dopo i soldati della Settima divisione e le forze speciali irachene circondano un campo del gruppo vicino a Rutba, che è l’ultima città sull’autostrada che corre verso occidente nel deserto tra la capitale e il confine con la Giordania.

Il 2013 appena finito è stato l’anno in cui Al Baghdadi ha conquistato lo status di uomo più ricercato del medio oriente: ha dichiarato guerra allo stesso tempo al governo iracheno del primo ministro Nouri al Maliki e al governo siriano del presidente Bashar el Assad e vuole sgombrare uno spazio geografico dal controllo “dei vecchi stati” per preparare la nascita di un nuovo Califfato islamico che li rimpiazzerà. Il programma è quello di al Qaida, con una differenza: i suoi uomini non si considerano più appartenenti semplicemente a un gruppo, “jamaat”, ma davvero a uno “stato” nascente (Dawlah). Baghdadi considera con disprezzo la linea di confine ufficiale tracciata dai detestati Sykes e Picot nel 1916 come un artificio occidentale inventato per dividere la comunità islamica e i suoi uomini la attraversano senza problemi, combattendo sull’uno e sull’altro fronte. Non si tratta di una visione collocata in un futuro remoto: in queste settimane per un viaggiatore arabo è possibile guidare da Fallujah in Iraq fino al confine turco passando attraverso il nord della Siria per una lunghezza di ottocento chilometri senza mostrare il passaporto. I reporter occidentali che provano a lavorare in quella zona spariscono nel nulla.

Il campo dello Stato islamico vicino Rutba è un gruppo di cunicoli ricavati nel fianco di una collina rocciosa e quando arrivano i soldati delle forze speciali irachene è vuoto, sono rimaste soltanto alcune bandiere nere con il sigillo bianco del profeta Maometto. Ci sono anche il comandante della divisione, Mohamed al Karawi, e altri alti ufficiali attirati dalla possibilità della cattura. Entrano per un’ispezione in quello che credono essere il rifugio più recente di Baghdadi, ma è una trappola: è stato minato con il Tnt, gli uomini dello Stato islamico stanno osservando da lontano, fanno saltare il covo. Le informazioni su Baghdadi erano soltanto un’esca. Ventiquattro morti, l’esercito iracheno nel governatorato di Anbar è decapitato in un colpo solo. Tre giorni dopo, alla vigilia di Natale, l’offensiva militare in Iraq contro lo Stato islamico si interrompe.

Dopo lo smacco, il primo ministro Nouri al Maliki – come per rivalsa – decide di far sgombrare il sit-in nella città più grande della provincia, Ramadi, che è una protesta permanente contro il governo fatta accampandosi in una piazza con striscioni e tende in stile gennaio 2010, come agli albori delle rivolte arabe. Nelle dichiarazioni del governo iracheno la protesta è accostata al terrorismo e allo Stato islamico, ma è un trucco retorico: gli abitanti di Anbar manifestano contro il governo centrale perché si sentono esclusi in quanto sunniti. Come spesso accade, però, il trucco retorico a furia di essere agitato si trasforma in realtà. Il 28 dicembre le forze speciali di Maliki arrestano un parlamentare protagonista del sit-in, Ahmed al Alwani, c’è una sparatoria, muore il fratello – su Facebook circola la fotografia di uno scarpone sulla sua faccia.

Dal momento dell’arresto di Alwani l’escalation di violenza nel governatorato non è più controllabile dal governo centrale. Anbar è abitata da una federazione instabile di clan uniti da alleanze precarie, con un denominatore comune: imboccano con facilità la strada della lotta armata. Durante gli anni della guerra contro gli americani Anbar era la zona più pericolosa, affidata per questo al corpo dei marine: i nomi delle sue città ricordano le battaglie più cruente – Ramadi, Fallujah – e fu da lì che nel 2006 un ufficiale dell’intelligence militare disse al Washington Post che “abbiamo perso la guerra nell’Iraq occidentale e non lo controlliamo più” in un articolo che fece notizia. Un terzo delle perdite americane in Iraq è caduto ad Anbar.

Dopo l’arresto del parlamentare sunnita la reazione violenta dei clan ha costretto il primo ministro Maliki a ordinare il ritiro dell’esercito – per la seconda volta – e ha aperto la strada agli attacchi dello Stato islamico. Il primo giorno dell’anno gli uomini di al Baghdadi hanno attaccato le stazioni di polizia nella zona, le hanno incendiate, hanno catturato alcuni blindati, hanno costretto altri gruppi delle forze di sicurezza alla diserzione. E’ rimasta la sola polizia, che però non è all’altezza del compito. Per la prima volta dagli anni della presenza americana gli altoparlanti delle moschee del governatorato chiamano al jihad, alla guerra santa. Per la prima volta dagli anni della guerra, di nuovo, l’artiglieria bombarda alcuni quartieri di Fallujah.

Il primo ministro Maliki ha propiziato la saldatura tra la protesta pacifica diventata armata e lo Stato islamico. Era un espediente da discorso politico, per giustificare la repressione. Ora è un fronte unico reale, abbastanza forte da combattere contro l’esercito. Dall’ultimo giorno dell’anno circola una foto eloquente: Abu Wahib, un comandante militare dello Stato islamico, parla con alcuni civili di Anbar da sopra il cassone di un pick up. Di solito Wahib appare in video e immagini soltanto con i suoi uomini o in azione contro i soldati o durante esecuzioni di presunti nemici dell’islam; questa volta invece è in mezzo alla gente.

In questa rivolta di Anbar non è possibile fare una divisione netta – da una parte i soldati fedeli al governo sciita di Baghdad e dall’altra le tribù sunnite e i guerriglieri dello Stato islamico – perché una parte dei clan iracheni combatte a fianco del governo e fa ancora parte del cosiddetto “Risveglio”, il Sahwa, il movimento di milizie locali che combatteva contro al Qaida in Iraq negli anni scorsi (quando ancora era chiamata così).

Elicotteri e missili. Quando l’Amministrazione Obama scelse di ritirare tutti i soldati americani dall’Iraq nel 2011 applicò alla lettera il calendario già stabilito dall’Amministrazione precedente e fece anche una grande scommessa su Nouri al Maliki: sarebbe stato capace di mediare tra i sunniti e gli sciiti e di mandare avanti la coabitazione irachena. Certo, si trattava di un salto enorme: il primo ministro è sciita ed è legato all’Iran e arriva dopo decenni di potere sunnita sotto Saddam Hussein e quindi tutti i sunniti si sentono defraudati e sono scontenti. Però dopo otto anni di guerra il nuovo corso a Washington era chiaro: l’Iraq doveva badare ai suoi problemi da solo e meno se ne fosse parlato meglio sarebbe stato. Dopo si è capito che non era soltanto voglia di mettere distanza con una guerra maledetta, ma l’anticipazione di una strategia più ampia: l’America si stacca dal medio oriente e rivolge la sua attenzione più a est, all’area del Pacifico. Quella scommessa sta ora naufragando nel governatorato di Anbar. Nella prima settimana di novembre Maliki è stato a Washington per chiedere armi per combattere lo Stato islamico e ora dall’America stanno arrivando rifornimenti di missili Hellfire, intelligence e consiglieri militari, come già sono arrivati elicotteri da guerra e prossimamente caccia F-16. In Iraq si prepara una riedizione di una strategia cara al presidente Barack Obama, il “leading from behind”, a fianco di un rais malvisto, per fermare l’emiro Al Baghdadi.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Daniele Raineri   –   @DanieleRaineri, 5 gennaio 2014 - ore 06:59

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