Gli italiani sono diventati enofobi
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beviamo sempre meno vino. Ecco La nostra decadenza
Io dovrei bere di meno ma gli italiani dovrebbero bere di più. Un settore decisivo come quello vitivinicolo non può vivere solo di esportazione. Che grazie a Dio va bene, come dicono Coldiretti e amici vignaioli, anche quelli più piccoli e contadini che mandano all’estero oltre il cinquanta per cento della produzione e non so come facciano, loro che non hanno nemmeno l’e-mail, figuriamoci un sito. Se n’è accorto perfino il Washington Post che in Italia non si beve abbastanza, e da noi invece nessun grido d’allarme, tutti a parlare di omofobia anziché di enofobia, il terrore che specie a mezzogiorno coglie sempre più uomini messi di fronte al sacro liquido. Chiamo una marchesa del vino e la colgo al termine di un pranzo postconvegno, tavolata di dieci persone, quasi tutti maschi, e mi dice che sono riusciti a finire appena una bottiglia, e ce n’erano altre pronte, altrettanto buone e altrettanto gratis. In pratica hanno sporcato i bicchieri.
Dovrebbero vergognarsi questi connazionali accidiosi che non sacrificano più a Venere, come ci spiega, vox clamantis in deserto, Roberto Volpi, e come si vede nemmeno più a Bacco. I diagrammi dei consumi pro capite mettono tristezza, le ultime stime parlano di 38 litri all’anno, oltre dieci litri sotto la Francia e meno di una bottiglia a settimana. La crisi di sicuro non aiuta ma la discesa è cominciata prima. Allora che cos’è successo? Mi ricordo zio Donato, a Picerno, montagna lucana, bere tranquillamente un litro a pasto e poi tornarsene alle sue viti da innestare. Ho ritrovato un passaggio di un antico maestro, Paolo Monelli, e se è lungo meglio perché è bellissimo: “Mi è capitato più volte in viaggio per la Toscana di dar fondo in due a un intiero fiasco, non quello corrente che contiene un po’ meno di due litri, ma quello che ha la capacità di due litri e due bicchieri; e alla fine del pasto, asciugato il fiasco, di sentirmi così fresco e ben disposto da chiedere all’ospite una mescita, cioè ancora un bicchiere colmo fino all’orlo dello stesso vino, come viatico”. Oggi un grande inviato del Corriere della Sera, che so, un Aldo Cazzullo, che pure è di Alba, cose del genere si vergognerebbe a scriverle. E probabilmente anche a farle. E’ proprio l’adulto a bere sempre di meno, mentre il ragazzo beve sempre di più, però birra e beveroni. Ogni bevitore serio giudica negativamente lo spritz, senza il quale però le statistiche sarebbero ancora più disastrose.
E’ come se il vino per essere bevuto non dovesse più avere colore di vino, odore di vino, sapore di vino. Questo spiega anche il boom delle cosiddette bollicine, ossia, a dirla volgarmente e quindi precisamente, dello spumante, il vino più artificiale che esista. Quando chiedo un bianco fermo mi guardano strano, anche nei buoni bar capita che ne abbiano solo due e sono spesso un Müller-Thurgau e un Gewürztraminer, nessuno davvero italiano, il primo un ibrido desolante, l’altro meno ignobile ma ugualmente nauseabondo siccome al naso sembra più boccetto di profumo che succo d’uva. E come fai a bere una bottiglia di Shalimar? Potrei incolpare del declino queste mode sceme che rattrappiscono l’amplissimo ventaglio dell’offerta enologica impedendo a molte persone di trovare il proprio vino ideale (esempio: esistono deliziosi vini ultraleggeri, i mosti parzialmente fermentati, che piacerebbero molto ai quasi astemi ma chi li conosce). Preferisco invece buttarla in metafisica ricordando don Giussani che, a tavola, sollevava ispirato un bicchiere di vino dicendo: “Noi crediamo in questo”. Gli italiani non bevono più vino perché non credono più nei loro dei (veri o falsi ai fini del bere poco importa), nelle loro vigne, nelle loro colline, in niente che davvero li riguardi.
FQ.di Camillo Langone, 1 novembre 2013 - ore 12:44