Cosa insidia il predellino di Renzi

Alla Leopolda le bandiere che non ci sono, il Pd che

si vede e non si vede, il gioco di prestigio e un problema cruciale: come può la sinistra accettare di trasformare il suo partito in “Forza Renzi”?

Lo vedevi un po’ da tutto, lì a Firenze. Lo vedevi dagli sguardi, dalle parole, dai commenti, dai movimenti, dai sorrisi, dalle reazioni, dalle bandiere, dai simboli e soprattutto dai sottotesti. Perché alla Leopolda, naturalmente, era tutto un che bravo Matteo, che discorso Matteo, che stile Matteo, che grinta Matteo, che forza Matteo, che squadra Matteo, che leadership Matteo e che grande Matteo. Ma alla fine dei conti, tra un Baricco e un Serra, un Farinetti e un Guerra, un Delrio e un Franceschini, un Migliore e un Fassino, la vera domanda sussurrata a voce bassa dall’immensa platea della Leopolda era sempre quella: ma come può riuscire Renzi ad asfaltare il vecchio Pd e a trasformare il Popolo della Leopolda, così lo ha chiamato Renzi, nel nuovo grande contenitore del centrosinistra italiano? E, in altre parole, come può il rottamatore della sinistra pensare di conquistare in scioltezza la sinistra salendo sul predellino di Firenze senza fare i conti con i mille anticorpi che la vecchia sinistra si prepara a far entrare in circolo nel corpaccione del Pd?

Il problema di fondo dalla corsa solitaria di Renzi verso la segreteria, che poi la segreteria è solo un pretesto perché la corsa di Renzi è verso la premiership, è tutto qui, ed è tutto nel gioco di prestigio che il sindaco ha messo in scena nella sua tre giorni leopoldina. Un gioco di prestigio dove l’ambiguità si gioca attorno a una virgola la cui presenza o la cui assenza coincide con la presenza o l’assenza di una rivoluzione culturale. Una virgola, sì. Perché poi il filo della campagna di Renzi è tutto qui: si tratta di un semplice “Forza, Renzi”, inteso come un popolo che si stringe attorno al suo leader pensando che il nuovo capo sia più competitivo rispetto a quello precedente; oppure si tratta di un “Forza Renzi”, inteso come un popolo che si stringe attorno al suo capo accettando non solo la presenza del nuovo leader, ma anche il fatto che il nuovo leader voglia passare come una ruspa, come un “Caterpillar”, sulle macerie del vecchio partito? La magia della Leopolda si gioca attorno a questo gioco di prestigio grazie al quale il sindaco la parola “Pd” la fa vedere e non la fa vedere, la mostra e la nasconde, la sfoggia come fosse un coniglio, e poi la rimette nel cilindro. Così Renzi fa scomparire il Pd, toglie le bandiere del partito, elimina i riferimenti al vecchio contenitore, invoca la forza del Popolo della Leopolda, parla non dei problemi dell’apparato ma dei problemi dell’Italia e si presenta non come il commissario straordinario di un partito che non c’è più, quello della Ditta, dell’usato sicuro, non come l’Augusto Fantozzi del Pd, insomma, ma come il candidato premier, il rottamatore delle larghe intese, il successore naturale dell’amico Enrico. E così, oplà, il Pd si vede e non si vede, esiste e non esiste, e Renzi si candida sì a guidare il partito ma si candida a guidarlo da Firenze, da sindaco, e dunque lontano dal partito, dalle bandiere, dal Palazzo, dall’apparato, da Roma.

E la magia di Renzi, vista dalla Leopolda, ha funzionato, ha sprigionato energia e ha portato in prima fila alcuni pezzi dell’apparato che in qualche modo hanno condiviso il vedo e non vedo di Renzi. Ovvero quel gioco in cui il sindaco maghetto offre uno spettacolo in cui tutto si tiene perché tutti possono vedere quello che vogliono vedere. E così tu passeggi per la Leopolda e incontri di tutto. Incontri il renziano della prima ora che con lo sguardo euforico si dice soddisfatto perché i renziani della seconda ora non hanno capito che Renzi è sempre lo stesso, e che quando prenderà il partito non farà compromessi ma rivolterà il partito come un calzino. Incontri il renziano della seconda ora che con lo sguardo furbo si dice soddisfatto perché i renziani della prima ora non hanno capito che il Renzi della prima Leopolda è stato rottamato per non scontentare i renziani della seconda e terza ora. Incontri il renziano della terza ora che con lo sguardo di chi la sa lunga si dice soddisfatto perché il nuovo Renzi sarà pure simile al primo Renzi ma non potrà fare a meno di cedere  sovranità e di condividere la sua opa sul Pd con i mille azionisti saliti sul carro del vincitore.

Renzi sta al gioco, mostra e non mostra, dice tutto senza dire nulla che possa scontentare, fa esultare i puristi (con Renzi, il governo ha le ore contate), fa esultare i governativi (con Renzi, il governo diventa più forte), fa esultare l’apparato (con Renzi, il Pd diventa più forte) e fa esultare i vendoliani (“alla Leopolda abbiamo visto la necessità di interrompere il flusso di chi vuole mantenere lo status quo”). Ma, alla fine dei conti, il simpatizzante lo lascia sempre con quel dubbio lì: davvero è tutto così facile? Davvero la strada è in discesa? Davvero il vecchio Pd, per così dire, è sul punto di essere smacchiato? Calma.

Calma, sì. Calma nel senso che anche Renzi sa che il percorso che gli si spalanca davanti presenta molti ostacoli che il sindaco dovrà mostrare di sapere affrontare. Renzi sa, infatti, che il tema di fondo della sua candidatura, il grande interrogativo, è se avrà la forza di adeguare il Pd alle sue esigenze o se sarà lui che alla fine si adeguerà alle esigenze del Pd. E sa che buona parte del suo margine d’azione verrà definito dai numeri delle primarie, dai numeri che tra meno di un mese arriveranno dal congresso riservato agli iscritti, dal distacco che ci sarà con il secondo arrivato, e infine dalla partecipazione che ci sarà l’otto dicembre, giorno di primarie, e dal numero di tessere che il sindaco riuscirà ad avere dalla sua parte (e per questo Renzi quest’anno punta forte su uno dei grandi signori delle tessere del Pd, il segretario regionale dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, neo-rottamatore di provenienza bersaniana, coordinatore della regione cassaforte dei voti del Pd e oggi responsabile della campagna renziana). Se Renzi stravincerà, dunque, portando ai gazebo milioni e milioni di elettori, avrà la forza di comportarsi come vuole, di rivoltare il Pd come meglio crede, di rottamare il vecchio partito, di imporre nel vocabolario del centrosinistra la “c” muta (oh he tu fai) e di introdurre persino nello statuto il tifo obbligatorio per la Fiorentina. Ma Renzi sa anche che basta un passo falso, un ostacolo improvviso, un infortunio, per trasformare il carro del vincitore nel carro di Gulliver. E basta un nulla per far sì che i mille alleati si trasformino in mille piccoli nemici pronti a legarlo. “La Leopolda – racconta al Foglio un renziano della seconda ora arrivato a Firenze per osservare il leader in pectore del Pd – per noi che non siamo renziani da sempre è stata simile al discorso che Berlusconi fece nel 2009 a Onna. In sintesi: un contesto conciliante, tranquillizzante, dove si prova a tenere tutti e tutto insieme ma anche un contesto in cui tu sai che alla fine basta un istante per interrompere la magia. Intendiamoci: sono convinto che tutti quelli che sono stati alla Leopolda pensano che Renzi sia l’unica salvezza per la sinistra. Ma d’altra parte è anche vero che tutti sanno che con Renzi al comando il Pd diventerà un partito modello faraone, dove al centro di tutto non c’è più il partito ma prima di ogni altra cosa il rapporto tra la folla e il capo. Il Pd oggi lo accetta, ma lo accetta come un malato che ingoia la medicina offerta dal medico. E se un giorno arriverà un’altra medicina, beh, chi lo sa come andranno le cose”.

La magia di Renzi, oggi, si lega anche al fatto che il sindaco, finora, è riuscito a calibrare il suo messaggio in modo tale da proporre come nemici non più obiettivi interni al Pd, i D’Alema, i Veltroni, le Bindi e gli altri dinosauri da rottamare, ma molti obiettivi esterni, come le larghe intese, gli inciuci, il vecchio establishment e i cliché della stampa faziosa. Renzi, insomma, ha trovato nuovi collanti, si è riscoperto, come capacità di aggregazione, più prodiano che veltroniano, e in questo mix di vedo e non vedo, dico e non dico, rompo ma non rompo, ha cominciato a vestire i panni di chi sa che oggi prima di tutto bisogna rassicurare, non spaventare, non dividere, e provare ad aggregare. Lo fa, Renzi, dissimulando a fatica una forma sostanziale di diffidenza per il suo partito che si traduce non solo con l’assenza di bandiere ma anche con la tendenza a fidarsi solo dei vecchi amici, di chi parla da sempre la sua lingua, inteso nel senso stretto del termine. Ma lo fa, Renzi, sapendo che oggi l’unica ciambella di salvataggio della sinistra coincide con il suo nome. Sapendo che la sua forza prima ancora dei contenuti (che ancora sono deboli, evocativi ma fragili) è sempre la sua carta di identità (perché, come dice il saggio, oggi essere giovani in Italia è più o meno come essere negri in America). E sapendo che per quanto dietro di lui ci possa essere un’armata Brancaleone, a differenza di Prodi, altro specialista delle armate Brancaleone, il suo progetto lo potrà difendere con più artigli del professore: avendoli, quegli artigli, conficcati non in un piccolo asinello ma nella pancia del Pd. “E’ benzina, è benzina – dice con un sorriso compiaciuto il senatore Nicola Latorre, ex dalemiano offerto in prestito al partito della Leopolda – Matteo è benzina, non c’è niente da fare. Ed è vero che a sinistra esistono molti capitani coraggiosi pronti a organizzare grandi cordate per salvare, diciamo così, l’italianità del Pd. Ma è anche vero che finché non verrà scoperto un nuovo carburante sono convinto che sarà la benzina di Renzi a far camminare la macchina della sinistra”. La benzina, già. Che poi solo il tempo ci saprà dire se “Matteo”, un giorno, resisterà alla tentazione di prendere quella tanica e di rovesciarla non nel serbatoio chiamato Pd ma sul braciere chiamato governo.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Claudio Cerasa   –   @claudiocerasa, 29 ottobre 2013 - ore 06:59

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