Ministeriali o intransigenti. Che cosa c’è

di politico e culturale dietro la guerra fra bande nel Pdl

E’ l’ora delle recriminazioni, dei sospetti, dei bisticci banali e persino degli esami di coscienza nel Pdl agitato che forse si avvia a un congresso, forse alle primarie, o forse resta così, introverso e sospeso, “come d’autunno, sugli alberi le foglie”, dice Sandro Bondi, che sempre porta in politica la sua sensibilità letteraria. Angelino Alfano e Raffaele Fitto si guardano con fissità torbida, passano ciascuno in rassegna le sue truppe, si lanciano messaggi attraverso le interviste ai giornali, e ciascuno di loro rivendica la maggiore prossimità fisica e affettiva con il Cavaliere, insondabile come una sfinge, quel Silvio Berlusconi che ieri ha incontrato Fitto, e domenica Alfano, lui che adesso presidia la pace domestica, e forse insegue un precetto politico così antico da esprimersi ancora in latino, “divide et impera”. E certo Gianfranco Rotondi, che sta con Fitto, strepita, dice che “c’è un problema di linea politica da quando Alfano ha vinto la conta in Senato. Dobbiamo fare un congresso”, insiste, “non sappiamo più chi siamo”, uno, nessuno e centomila Pdl, dice Rotondi, l’ex democristiano schierato contro quelli che gli antipatizzanti accusano di voler rifare la Dc, il grande centro.

Roberto Formigoni, l’ex potente governatore della Lombardia, che assieme a tutta Cl sta con Alfano, nega, tronca, sopisce, “non vedo molta differenza di visione politica tra noi e loro, nessuno vuole rifare la Democrazia cristiana con Enrico Letta o chissà chi”. E capire quali siano gli orizzonti contrapposti, quali le categorie che allontanano i ministeriali del governo Letta dal gruppo degli ex ministri quarantenni di Silvio Berlusconi è come avvicinarsi alle origini misteriose d’una nebulosa cosmica; cosa mai spinge al contrasto Gaetano Quagliariello e Mariastella Gelmini, Renato Brunetta e Stefania Prestigiacomo, Beatrice Lorenzin e Mara Carfagna? “Sembra tanto un regolamento di conti interno”, opina, con il compassionevole distacco dell’entomologo, Luca Ricolfi, il professore, l’editorialista della Stampa. “Non si intravvede nessuna riflessione, non mi sembra che la destra stia nemmeno provando a ripensarsi. E’ possibile che, per un accidente della storia, da questo conflitto di potere tra Alfano e Fitto venga fuori qualcosa. Ma sarà così, un caso, un effetto collaterale, un imprevisto, persino Berlusconi è ancora lì, tutt’altro che finito”.

E dunque, dice Ricolfi, nel Pdl non c’è posto per le passioni, neanche per le più fosche, anche il vizio si trascina in un’aura svagata e mediocre, e così, maliziosamente, secondo la più antica prammatica di corte, sempre uguale a se stessa, nei corridoi del Pdl si mormora che siano soprattutto problemi personali, ansie, paure esistenziali; che Fitto, insomma, escluso dal governo di larghe intese e da ogni incarico, da tempo si fosse sentito tradito dal suo vecchio amico Alfano, che gli preferì Renato Brunetta per il posto di capogruppo alla Camera. E che adesso, l’ex ministro, con la sua base elettorale concentrata nel mezzogiorno d’Italia, fortissimo in Puglia e fortissimo in Campania, non voglia più dipendere, ma conquistare una sua indipendenza feudale nel centrodestra che verrà. Possibile, verosimile, ma “tutti loro vivono in una strana aporia”, dice Ricolfi. E il professore procede con evidenza nuda nelle contraddizioni e nel marasma del Pdl. “Sia Fitto sia Alfano, sia Quagliariello sia Gelmini, coltivano il progetto di unire i moderati e attuare la rivoluzione liberale tradita. Ma sono due obiettivi in contrasto tra loro. E’ su questo che dovrebbero dividersi, e invece sono uniti in questa contraddizione, sono identici nell’errore. La sacra unione dei moderati rappresenta la palude dorotea, mentre la rivoluzione liberale è una cosa radicale, un gesto scapigliato e rivoluzionario. I due orizzonti, è evidente, non si tengono insieme. Ma gli uni e gli altri contendenti sono immersi, fino al collo, allo stesso modo, in questa incoerenza logica”. E d’altra parte dalla Dc viene Fitto, e dalla Dc viene pure Alfano, e vederli accusarsi l’un l’altro di centrismo molesto ha un sapore di beffa.

Daniela Santanchè, la Pitonessa che avrebbe voluto soffocare le larghe intese nelle sue spire, assiste adesso al trionfo di Enrico Letta e del suo vicepremier Alfano con l’animo, tra oppresso e annoiato, di chi legga un resoconto ufficiale dello Svimez sul problema idraulico della bonifica del Simeto. “Non mi appassiono più”, ammette. Eppure la Pitonessa, sconfitta assieme a Denis Verdini, l’uomo dei numeri che ha smarrito il conto dei dissidenti in Senato, riconosce in quel partito che è – o forse, chissà, è stato – anche il suo l’emergere di un fenomeno nuovo, d’antiche passioni un tempo imbrigliate e oggi libere di venire a galla, “una tendenza”, dice Santanchè, con una gesticolazione insolitamente controllata, “alla melassa dorotea”. La falchessa ancora non si è schierata, e forse non lo farà mai, ma rivendica di appartenere al “partito no tasse, al movimento del funzionalismo, della libertà e dell’azione. Quello che ha fondato Silvio Berlusconi”. Esiste ancora?

“Noi vogliamo che continui a esistere”, dice Mariastella Gelmini. “Le differenze, tra noi e loro, sono enormi”, e non si può fare a meno di notare quel “noi”, da una parte, e quel “loro”, dall’altra. “Alfano vuole abbandonare la logica dell’alternanza”, dice Gelmini. “Con Letta condivide un’idea consociativa e statalista dell’Italia”. E l’ex ministro berlusconiano dell’Istruzione quasi li descrive arroccati in un paese la cui vocazione sarebbe una felicità senza sforzo e senza lacrime, paladini di un mondo dolciastro, popolato di statali ben pasciuti, “io chiedo che si confrontino apertamente le linee che sono emerse negli ultimi giorni”, dice. “Alfano deve dire qualcosa di destra. Io rimango una sostenitrice dell’economia sociale e di mercato, lui? Io sono per il bipolarismo, lui? Io sono per conservare la Bossi-Fini, lui? Io rimango garantista e ritengo che la giustizia sia un punto qualificante della nostra offerta politica, lui? Voglio sapere qual è il progetto di Alfano per l’Italia e per il nord. Che vuole fare del cuneo fiscale? E dell’Imu? Boh. Giovanardi, Cicchitto, Quagliariello e lo stesso Alfano rispondono usando una sola parola, ‘stabilità’, come se questo termine fosse dotato di capacità salvifiche totali. Ma non significa niente. Che programma è la stabilità?”. E così Gelmini si fa insinuante, aggrotta la fronte, assume un cipiglio da Mata Hari, “io non sono sicura di quello che sto per dire, ovviamente”, premessa cauta.

“Però mi chiedo se questo governo, questa élite politica che si è condensata attorno a Letta e ad Alfano, non sia il germoglio di un nuovo partito, forse persino d’un nuovo patto sociale”. E dunque, come in un eterno ritorno, tra sospetti e retropensieri, in questo strano roteare neodemocristiano, nell’animazione petulante che invade il Pdl, tra le parole di Gelmini fa capolino il volto antico di Pier Ferdinando Casini, ed era quasi inevitabile. “Guardate come sono interessati gli uomini di Alfano ad aprire a Casini e a Monti”, dice. Il leader dell’Udc osserva le mosse di Alfano, vorrebbe salvarsi, pensa Gelmini, galleggiare come sempre ha saputo fare, anche nell’Italia di Enrico Letta, e allogarcisi dentro, farci il nido dentro, come chi indossa un vecchio maglione. “C’è tutta una singolare, e sospetta, corrispondenza di amorosi sensi”. Così Gelmini aggredisce il garbo melenso dei ministeriali, e dà corpo a un’ombra. Il centrodestra e il bipolarismo, dice lei, non possono sopravvivere in un sistema modellato a immagine e somiglianza di Letta e Alfano, i compari delle larghe intese, padroni della transizione italiana, loro che invece s’intendono alla perfezione perché, gratta gratta, s’assomigliano. Entrambi galleggiano sulla superficie stagnante del Parlamento, pensa Gelmini, condividono la medesima natura, l’eterno e misterioso fascino del dire e non dire, dei passettini, delle graziose futilità, del perdere tempo per guadagnare tempo, dell’arabesco inteso non soltanto come fatica della politica ma addirittura come fine della politica stessa.

“Noi che c’entriamo? Deberlusconizzare il centrodestra significa alienarsi tutto il nostro elettorato, e infatti nei sondaggi stiamo crollando”. E quello che descrive Gelmini è un mondo passato, vecchio, d’una decrepitezza terribile, come un’ammonizione biblica.

Ma il paradosso del Pdl in lotta è che le parole “democristiano” e “partitocrazia” sono scagliate, come contundenti sampietrini, da un corridoio all’altro del partito, le usano tutti. E dunque Gaetano Quagliariello, ministro delle Riforme, lui che è avversario di Fitto e alleato di Alfano, sostiene che “il congresso sarebbe come riconsegnarsi ai riti polverosi della democrazia partitocratica. Quello che vuole Fitto è il massimo dell’antico, del ritorno al passato”, dice lui. “La conta, le tessere, le prove muscolari tra un ceto politico ingessato nel suo gessato grigio… Questo è tutto il contrario del bipolarismo e della logica dell’alternanza, questa sì che è la Prima Repubblica”. E Quagliariello tempera l’arguzia con la saggia cautela che gli deriva dal ruolo ministeriale, ma scuote la testa, ironico, almeno quando soppesa le parole dei suoi avversari. “Mariastella dice una sciocchezza”, sorride. “Il programma del governo non è la stabilità fine a se stessa, ma sono le riforme, che noi ministri del Pdl siamo riusciti a portare sul terreno del centrodestra. Le riforme che farà questo governo sono riforme berlusconiane.

Siamo talmente bipolaristi che stiamo lavorando per candidare Alfano alle elezioni del 2015. Si rassicurino, dunque, la logica dell’alternanza sta a cuore a tutti”. E insomma l’accusa sarebbe strumentale, nasconde mire di potere, una logica di spartizione muscolare. “Non ci sono novità, non ci sono differenziazioni, né sfumature. Siamo tutti per l’economia sociale e di mercato, siamo tutti garantisti (possibilmente anche all’interno), siamo per la libertà d’impresa e siamo contro l’oppressione del regime fiscale. Lo dico chiaro: l’Imu non tornerà mai”. E insomma il problema interno sarebbe un altro. La transizione sarà ancora lunga e dolorosa nel Pdl, Berlusconi è in campo ma sarà pure presto consegnato ai servizi sociali, un po’ dentro un po’ fuori, libero ma prigioniero, “e c’è chi teme di non contare più nulla”. E dunque Quagliariello sembra ammettere quello che sostiene anche il professor Luca Ricolfi, “il conflitto non è sulle idee”. E Ricolfi giudica con severità malinconica le ore esagitate del Pdl, “sono ontologicamente incapaci di ripensarsi”, dice, “il centrodestra in Italia soffre un problema di natura demografica. Sono sempre gli stessi. Nel centrosinistra s’è affacciato Matteo Renzi, avanzano figure che possono anche non piacere, ma che sono nuove, come Pippo Civati o Laura Puppato. La verità è che se non c’è un ricambio nel personale politico non cambiano nemmeno i pensieri. E la classe dirigente del Pdl è prigioniera degli stessi ragionamenti da vent’anni. Se reciti ‘Amleto’ per tutta la vita, poi non puoi mettere in scena la ‘Turandot’ in poche ore”. Ma Quagliariello, che dal giorno della conta in Senato prova la casta, sfebbrata felicità di essere vivo, a un certo punto lascia intuire l’esistenza d’un pertugio dove potrebbe far leva tutta la forza polemica di Fitto e Gelmini, di Prestigiacomo e di Carfagna, di Bernini e di Micciché. “Berlusconi non ha mai vinto perché aveva in mano un partito della destra, ha vinto perché ha saputo conquistare i terreni del centro. Quando Berlusconi ha sguarnito il centro, ha perso”. Il centro, dunque, ecco la parola, finalmente, l’antica ossessione per il centro, l’ombelico della politica, la lenta funzione gastrica d’un mondo che per la verità va avanti con gli estremi: i piedi per scappare e la testa per pensare. “Ma non esiste l’ipotesi di un nuovo contenitore centrista”, aggiunge Quagliariello. “Letta non sarebbe nemmeno disponibile”, dice il ministro, e non si capisce se il suo è un tono d’inconsapevole rimpianto. “Il progetto di Letta è tutto dentro il Pd. L’ipotesi neocentrista può anche venire fuori, ma per eterogenesi dei fini, per colpa dei falchi del Pdl e del Pd, di quelli che vorrebbero terremotare tutto, spingere verso un’estremizzazione del dibattito, chissà, verso una scissione”. Non succede, ma se succede non sarà colpa dei sospettati di oggi, dicono i minesteriali. Ma gli accusatori protesterebbero invece l’inverarsi del loro monito: “Non ti fidare, Cavaliere”. Intorno al quasi nulla dei contenuti e delle visioni, delle identità ultime e delle originarie obbedienze, tutto già si muove etsi Cav. non daretur. Come se Berlusconi non ci fosse. Ma non si può dire, perché lui c’è, e non c’è.

© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Salvatore Merlo   –   @SalvatoreMerlo

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