Dalla protesta alla resistenza

Fecero il gavettone a Violante e al diritto di difesa

del parlamentare Berlusconi, poi si sono accaniti alla caccia dello scalpo, ora pretendono che la vita continui come prima. Ma ci sono o ci fanno?

Dalla protesta alla resistenza. Io la vedo così. Cito versi del dissidente tedesco, cabarettista politico, Wolf Biermann: “Siamo passati dalla protesta alla resistenza quando tutte le nostre proteste hanno fatto un buco nell’acqua”. Le dimissioni dei ministri di Berlusconi e il duro richiamo a una nuova battaglia elettorale dagli esiti incerti sono l’unico modo rimasto di tenere aperta la questione della giustizia politicizzata, dell’accanimento contro l’Arcinemico, insomma dell’ingiustizia mascherata da rispetto dello stato di diritto.

Qui non hanno mai volato falchi né colombe. Il giornale che leggete è estraneo per natura alle divisioni partitiche e di corrente nel movimento di Berlusconi. Le abbiamo sempre raccontate con toni smagati e, quando possibile, perfino divertiti. Spesso annoiati. Siamo di natura su una posizione piuttosto realista, mai moralista, in un senso o nell’altro. Volevamo il redde rationem nel novembre del 2011, dopo aver cercato di evitare il disastro della perdita della maggioranza di centrodestra nata con il plebiscito del 2008. Prima ancora avevamo battuto su un tasto che a noi sembrava obbligato: Berlusconi non deve comportarsi da imputato, deve accettare il contraddittorio, uscire dal bunker, fare del governo la leva per rovesciare l’aggressione nei confronti suoi e del suo legittimo diritto di guidare il paese nella tempesta economica, con idee chiare sulla crescita e sull’Europa. A governo Monti formato, per decisione della coalizione ABC e di Napolitano, ci siamo battuti perché si facessero le riforme serie dell’economia, e abbiamo analizzato come una novità interessante, nonostante i dubbi su un potere senza sovranità democratica, l’esperimento Monti di “depoliticizzazione della democrazia”: ci sembrava una via possibile per la pacificazione, per la costruzione di una prospettiva intelligente in un paese corrotto dalla stupidità fanatica e dalla faziosità moralista con cui venivano affrontate le questioni decisive. Siamo stati per lunghi mesi, fin dentro la campagna del febbraio 2013, critici della linea della rivincita elettorale e della rimonta necessariamente rissosa e senza programma. Poi Berlusconi ce l’ha fatta a bloccare l’ordalia grottesca della “serietà al governo”, la pretesa burocratica di Bersani di farsi re senza nemmeno cercare la corona. Il governo di larga coalizione, a Napolitano rieletto, ci era apparso come una vittoria di Berlusconi e della ragionevolezza ovunque annidata, e del realismo politico del capo dello stato. Fino a qualche settimana fa, dopo la condanna in Cassazione, abbiamo cercato di intravedere un percorso ancora minimamente razionale: Berlusconi fa pesare la sua indispensabilità politica, si trova una soluzione di rinvio e di appeasement sul tema sempre più febbrile della sua eliminazione dalla scena parlamentare, il governo va avanti, si prepara una successione a sorpresa, l’ultimo capitolo del romanzo politico berlusconiano (Marina).

Alla fine si è visto che sulla indispensabilità politica di Berlusconi i suoi arcinemici e le forze intermedie o istituzionali sputano o si voltano dall’altra parte. Sono prigionieri tutti dell’ideologia manettara e di una folla radunata da mesi per l’erezione del patibolo. Vogliono non già un cambio politico, ma il regime. Vogliono lo sradicamento della destra che c’è, e la creazione di una destra di comodo che chiamano adulta, europea, democratica, non populista. Balle. Sostengono, senza nemmeno vergognarsene, che non esiste un problema di Berlusconi legato alla storia di questo paese e al sistema politico e istituzionale, si tratta di questione personale, giurisdizionale, giudicata, è un pregiudicato. Punto. Vogliono sbatterlo fuori dal Senato al più presto, lo usano come simbolo politico da abbattere, come scalpo da mostrare, scartano come materia di compromesso la soluzione proposta da Luciano Violante, battistrada di Napolitano, e il governo dei piccoli, che non sa fare politica, che è debole, che rinvia tutto, se ne lava le mani e alla fine fa i dispetti sull’Iva e sull’Imu. Una sceneggiata di basso tenore civile.

Il passaggio dalla protesta alla resistenza, il muoia Sansone dei giorni scorsi, ha la sua motivazione in questo processo, in questa ordalia. Dopo vent’anni di giustizia politica, di pm fattisi partito, di giornalisti fattisi pm, di sovversione di tutti i criteri di un vero stato di diritto, ecco che una corte giudicante può, senza nemmeno che il Parlamento riconosca il diritto politico di difesa dell’accusato o del condannato, risolvere il problema della democrazia italiana con i suoi mezzi, con il suo stile, lo stile Esposito, erigendo la sua gogna e il suo patibolo. I ministri volenterosi del Pdl che non sono d’accordo, e tutti coloro che ora scoprono le virtù della moderazione, in polemica con gli estremisti, dovrebbero riflettere su queste circostanze. Come facciamo noi, che dell’estremismo politico abbiamo sempre sorriso, mentre lo combattevamo, ma ora accettiamo l’ultima mobilitazione dopo che ogni tentativo di evitare il disastro esercitando il diritto alla protesta politica è fallito. Che Berlusconi vada in galera, mentre la vita continua, è derisorio per chi non lo considera un gangster, ma un leader combattuto con metodi da gangster. Dalla protesta alla resistenza è dunque il livello minimo del nostro dissenso.

 © - FOGLIO QUOTIDIANO Giuliano Ferrara, 1/10

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