Meglio nessuna legge piuttosto che far decidere

il Parlamento sulla vita dei sindacati in azienda

Marchionne ha diritto a contratti esigibili, ma oggi gli insegnamenti di Biagi sono più utili delle proposte alla Ichino (che espongono i lavoratori a ingerenze statali)

Si discute da tempo se, come sostenuto anche ieri da Francesco Forte su questo quotidiano, il bivio vero riguardante la crescita stia o meno nella deregolamentazione del mercato del lavoro. Tra economisti e giuslavoristi abbondano argomentazioni in favore tanto dell’una quanto dell’altra tesi. Ciò che invece solleva più di una perplessità è che, preso atto delle deboli misure contenute nel pacchetto lavoro recentemente approvato dal Parlamento, una deregolamentazione del mercato del lavoro debba necessariamente passare attraverso una legge sulla rappresentanza sindacale.

La scelta, indubbiamente obbligata, tra il modello neocorporativo e quello di un libero sindacato che si confronta con la libera azienda è propria del solo sistema di relazioni industriali e delle personali opzioni associative dei lavoratori. Là dove una legge dello stato, nel riconoscere il fenomeno sindacale con la relativa patente di rappresentatività, oltre a svilire di significato la scelta di adesione o meno a un sindacato, finirebbe per ingessare le dinamiche intersindacali comprimendone l’attività all’interno di logiche stataliste.

Come giuslavorista sarei invero portato a sviluppare alcune argomentazioni tecniche per sostenere le ragioni del mio dissenso sulla legge sindacale. Ma non è questa la sede se non per precisare che, nella recente sentenza della Corte costituzionale sul caso Fiat, non si intravede l’urgenza e tanto meno l’obbligo per il Parlamento di un intervento sulla rappresentanza sindacale e l’esigibilità dei contratti collettivi di lavoro. Semplicemente la Corte ha stabilito che l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori non può essere interpretato nel senso di negare la possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali a un soggetto rappresentativo come la Fiom anche là dove decida di non firmare i contratti collettivi applicati dall’azienda. Una legge sindacale non potrebbe dunque, rispetto alla contesa Marchionne-Landini, disporre nulla di diverso da quanto già statuito dalla Consulta.

Da studioso delle relazioni industriali vorrei piuttosto ricordare che un riformista come Marco Biagi ci ha da tempo avvertiti, sulla scorta di una meticolosa analisi monografica della esperienza di altri paesi, che richiamarsi alla legge o al numero dei voti ottenuti nelle elezioni per affermare la propria rappresentatività, “è una soluzione che ha sempre dato risultati non convincenti e non farebbe altro che esasperare le divisioni già profonde tra le nostre organizzazioni sindacali, destabilizzando ancor di più il sistema di relazioni industriali nel suo complesso” (scriveva lo stesso Marco Biagi in “Votare sui contratti esaspera le divisioni”, sul Sole 24 Ore del 23 novembre 2001).

Accordi separati producono certamente profonde lacerazioni. La storia del nostro paese dimostra tuttavia che si sono potute gestire e superare situazioni assai più gravi e dirompenti di quelle evidenziate dal caso, del tutto peculiare, di Fiat, senza mettere mano a una legge che, nel misurare la forza del sindacato, lo espone inevitabilmente a ingerenze o forme di controllo da parte dello stato. Ciò tanto meno se la soluzione all’orizzonte sta nella regola maggioritaria del progetto Ichino, su cui è clamorosamente fallita l’esperienza sindacale statunitense e che, come più volte ha affermato Raffaele Bonanni, finirebbe per privilegiare, nel lungo periodo, un sindacato demagogico di natura assembleare e corporativo.

La verità è che l’articolo 39 della Costituzione non ha sin qui trovato attuazione proprio perché incentrato su un modello neocorporativo di sindacalismo. Lo stesso sindacato, nemmeno dopo la lacerante rottura del fronte unitario con la nascita prima della Cisl e poi della Uil, non ha mai ritenuto di dover appellarsi al legislatore per risolvere conflitti di legittimazione interni alla libera dialettica sindacale e che solo in essa possono trovare una vera e adeguata soluzione. Semmai, con lungimiranza, è stato il sindacato riformista ad aver inteso nella non attuazione legislativa dell’articolo 39 una opportunità per consolidare un sistema di relazioni industriali incentrato sul principio del libero e mutuo riconoscimento di rappresentatività anche a livello aziendale.

L’opzione dell’astensionismo in materia sindacale è stata confermata nel corso del tempo dal legislatore che, sino a oggi, si è opportunamente limitato a recepire gli esiti della libera dialettica sindacale senza privilegiare aprioristicamente un determinato modello di rappresentanza. Ciò ha consentito di valorizzare appieno il ruolo del sindacato, lasciando che fossero i rapporti di forza tra le parti, piuttosto che una velleitaria o paternalistica imposizione dello stato, a stabilire le linee di sviluppo del sistema di relazioni industriali. Vuoi nella forma conflittuale che da tempo caratterizza la Fiom. Vuoi nella forma collaborativa e partecipativa propria di Cisl e Uil.

La questione della legge sindacale è tutta qui, nella distinzione tra libera rappresentanza su base associativa degli iscritti e rappresentanza ope legis di tutti i lavoratori. E poco potrebbe allora un governo, tanto più se debole e composito come quello guidato da Enrico Letta che, se davvero riuscisse a far passare una legge sulla rappresentanza sindacale, finirebbe per ratificare una soluzione compromissoria di matrice neocorporativa.

Un sindacato debole invoca il legislatore

E’ il fondamentale principio di libertà di associazione e di azione sindacale che rende non solo superflua, ma anche dannosa, per una società complessa come la nostra che aspira ad essere aperta e pluralista, una legge di disciplina eteronoma della rappresentanza sindacale. Solo un sindacato debole può sentire il bisogno di meccanismi legislativi volti a sostenerlo con l’estensione anche ai non iscritti della efficacia dei contratti collettivi che stipula. Al caro prezzo, però, di far perdere completamente di significato l’atto libero e responsabile di adesione a un sindacato che sarebbe inesorabilmente avviato, una volta sancito il primato della politica sulle vicende sociali, verso una sostanziale marginalizzazione.

Non è certo un caso che un sindacato capace di ottenere sul campo il riconoscimento della controparte ha sempre visto con giustificato orgoglio la non attuazione dell’articolo 39, là dove la richiesta di una legge che ne certifichi la forza, oltre a legittimare l’intervento del giudice nelle dinamiche delle relazioni industriali, è l’ammissione della incapacità di conseguire i propri obiettivi e di misurare, nel libero confronto con tutte le controparti, la propria rappresentatività.

E non sarà allora certo una legge dello stato a poter risolvere la disputa, propria dell’attuale dialettica intersindacale così come enfatizzata dallo spinoso caso Fiat, sul ruolo e le funzioni del sindacato in una società democratica e pluralista. Soprattutto nei momenti di crisi e lacerazione del confronto politico-sindacale, ciò di cui non si sente affatto bisogno è la prospettiva di una società chiusa, in cui qualcuno, grazie a una misurazione formalistica della propria rappresentatività, dia a intendere di possedere l’unica verità. Chi davvero crede in un progetto libero e pluralista di relazioni sindacali e ancor di più nella stessa modernizzazione del mercato del lavoro non può invece che aderire a una concezione aperta e pluralista della società: una società che vive e si alimenta anche di conflitti e che nasce dalla libertà proprio perché in essa nessuno può permettersi di assolutizzare, tanto meno con l’intervento di una legge o del giudice, le proprie visioni del mondo.

di Michele Tiraboschi (Università di Modena

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata