Riduzione spesa. L'insuperabile tabù italiano
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La scorsa settimana Enrico Letta, al termine del vertice
europeo, ha comunicato di aver ottenuto un grande successo: maggior flessibilità per i nostri conti pubblici. Poiché il governo Monti - ipotizzando di continuare a far pagare l'Imu a tutti e di aumentare l'Iva a luglio - prevedeva per il 2013 un deficit del 2,9%, maggior flessibilità dovrebbe significare poter oltrepassare, almeno temporaneamente, il limite del 3% imposto dalle regole europee. Altrimenti dove sarebbe la maggior flessibilità? Poche ore dopo il ministro Saccomanni ha spiegato che sarà assai difficile trovare lo spazio per evitare un aumento dell'Iva o per eliminare definitivamente l'Imu sulla prima casa. Non sorprende che tanti cittadini siano confusi e non capiscano che cosa intenda fare il governo.
Proviamo a capire. Se veramente, come sostiene Letta, l'Unione Europea ci avesse concesso più spazio sul deficit, allora potremmo non solo evitare l'aumento dell'Iva e cancellare l'Imu sulla prima casa, ma anche cominciare a ridurre le tasse sul lavoro. Se non lo si può fare significa che quella flessibilità non c'è (come dice Saccomanni), o che il governo pensa di usarla non per ridurre la pressione fiscale, ma per aumentare le spese. Infatti si è subito cominciato a parlare di «investimenti pubblici produttivi». Di tutto l'Italia ha bisogno tranne che di più spesa pubblica. I consumi delle famiglie sono scesi del 6% in due anni (2012-13). Nel medesimo periodo la spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi è salita dal 45% del Prodotto interno lordo al 45,8 (era il 41,4% dieci anni fa). L'Italia ha bisogno di meno tasse sul lavoro per far crescere l'occupazione, e meno tasse sui consumi per far ripartire la domanda. Aumentare la spesa pubblica significa che prima o poi le tasse dovranno crescere ancora di più.
Dall'esperienza dei Paesi europei che negli ultimi tre anni hanno cercato di uscire dalla crisi tagliando il debito e ricominciando a crescere, si impara una lezione molto chiara. L'Irlanda, che ha corretto i conti soprattutto riducendo le spese, ha ricominciato a crescere: la stima per quest'anno è un aumento del prodotto pari all'1,3%. L'Italia invece si è limitata ad aumentare la pressione fiscale senza far nulla per ridurre le spese delle amministrazioni pubbliche, che anzi continuano a crescere. Risultato, non riusciamo ad uscire da una recessione profonda: la stima per quest'anno è un'ulteriore contrazione del reddito pari all'1,9%. Non bisogna quindi sorprendersi se Standard & Poor's giudichi l'Irlanda, che pure ha un debito elevato quasi quanto il nostro (ma in discesa), più affidabile dell'Italia.
Continuiamo a commettere il medesimo errore: lo fece il governo Monti due anni fa e, se non si tagliano le spese, lo ripeterà Letta oggi. Non siamo capaci di varare un piano credibile di radicale riduzione delle uscite, quindi ci affidiamo all'aumento della pressione fiscale. Le agenzie di rating, e soprattutto i mercati, capiscono che limitandosi ad aumentare le tasse la crisi non si risolve e ci obbligano a fare di più. E la sola cosa che finora i governi hanno saputo fare è stato incrementare ancor più la pressione fiscale, peggiorando la situazione. È un circolo vizioso che sta distruggendo l'economia.
12 luglio 2013 | 7:54, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, Il Corriere della Sera