Perché a noi italiani farebbe bene riscoprire
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l’etica sociale di Hume
……….. Ma perché Hume è così prezioso? Anzitutto perché invece di concepire l’azione morale in una purezza che va al di là dei sentimenti, pone i sentimenti alla base dell’etica. Più che essere un puro dovere e un imperativo svincolato dal carattere degli individui, dalle esperienze e dalle circostanze sociali (come avviene nel categorico “devi perché devi” di Kant), l’agire morale per Hume nasce dalla natura umana, da sentimenti morali resi stabili dalla formazione del carattere e dall’ampliamento dell’idea di bene al di là dei limiti individuali.
Si tratta di un’etica che non ha bisogno della teologia, perché si produce gradualmente all’interno della socialità: “Il vizio e la virtù sono ‘oggetti relazionali’ che esistono nel mondo solo in quanto ci sono esseri umani costituiti in modo tale da approvare e disapprovare”. E’ necessario tuttavia avere un “punto di vista comune” e non solo individuale: “L’esperienza condivisa mostra infatti come vi siano beni elementari quali vivere in una società pacifica, raccogliere i frutti della divisione del lavoro e dell’organizzazione sociale, o coltivare i piaceri della vita privata”. Perciò senza “simpatia”, condivisione, discussione e stabilità di comportamenti non c’è moralità.
Hume diffida delle virtù “monacali” e ascetiche che orientano al silenzio, alla solitudine e al sacrificio di sé, perché le ritiene socialmente dannose. E questo è comprensibile se si tiene conto che la morale non ha per lui un fondamento metafisico (in Dio) o trascendentale (nella Ragione) ma esclusivamente sociale. Più che la società come dato e fatto organizzativo ciò che conta è piuttosto la socialità come comportamento simpatetico.
Solo che una malintesa simpatia può ostacolare o impedire il giudizio morale. Hume evita il rischio di conformismo sociale dell’etica della simpatia distinguendo due tipi di virtù: quelle “eroiche” (grandezza e nobiltà d’animo, orgoglio, onore) e quelle “benevole” (bontà, delicatezza, tenerezza di sentimento). La virtù degli “eroi del pensiero” contribuisce a mettere in discussione le norme comuni e abituali.
Interessante è il fatto che John Stuart Mill, un secolo dopo, affermò che alla felicità generale contribuiscono più i comportamenti abituali moralmente “mediocri” che gli atti eroici e le azioni compiute in circostanze eccezionali. Una critica dell’etica di Nietzsche potrebbe partire proprio da qui, dal suo disprezzo della mediocrità. Il ruolo educativo che Nietzsche attribuisce ai grandi artisti e ai grandi filosofi è fondamentale: sono loro che aiutano di più a diventare coraggiosamente “quello che siamo”, a scoprire, accettare e votare fedeltà al proprio “vero io”, il che prevede un rifiuto e uno smascheramento della morale comune, in particolare del cristianesimo.
L’etica di Nietzsche ha sedotto e seduce non a caso le élite politiche e intellettuali antidemocratiche: chiede all’individuo di realizzare se stesso e di ergersi al di sopra del “gregge” umano e impone una creazione del proprio io che somiglia più alla creazione di un’opera d’arte che all’invenzione quotidiana di una socialità migliore.
Nella cultura di una democratica società di massa, il destino del pensiero di Nietzsche è inevitabilmente paradossale. L’estetica dell’io è oggi pane quotidiano, non ha bisogno di Nietzsche eppure è il primo comandamento di ogni produzione pubblicitaria. C’è poi il nostro caso nazionale. Noi italiani siamo naturaliter nietzscheani in formato minimale e non somigliamo affatto agli inglesi di Hume. Le nostre simpatie vanno all’estetica dell’immediatezza. L’eroismo morale antimoralistico di Nietzsche ci sfugge e la stabilità etica del comportamento sociale ci deprime. di Alfonso Berardinelli, il Foglio, 13/5