Bersani e le mosse per rimanere a galla
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Il no al Pdl, l’apertura ai grillini, quei calcoli sul Quirinale. Niente accordo con
Berlusconi, niente grande coalizione, niente modello tedesco, niente autocritica, niente chiarezza sul futuro. Sono le diciassette in punto quando Pier Luigi Bersani si presenta in Piazza Fanti, a Roma, sul palco che il Pd aveva allestito tre notti fa sotto la splendida cupola dell’Acquario romano per festeggiare quella che doveva essere una vittoria facile per il centrosinistra guidato dal segretario del Pd. Bersani arriva di fronte ai cronisti consapevole del risultato negativo ottenuto dalla sua coalizione e dopo aver ammesso di non aver vinto le elezioni, “nonostante i numeri indichino che il centrosinistra sia la prima forza sia alla Camera sia al Senato”, esplicita la linea che porterà avanti da qui ai prossimi giorni. Bersani esclude che ci possa essere la minima probabilità che il Pd costruisca un governissimo con Berlusconi (ipotesi che però nel Pd qualcuno continua a non escludere) e sceglie di seguire una strada diversa: quella di un governo di scopo con alcuni “punti fondamentali di cambiamento” intorno ai quali costruire delle singole maggioranze con le forze presenti in Parlamento. Il segretario, in buona sostanza, non rinuncia al tentativo (molto complicato) di provare a formare un governo e, pur non dicendolo espressamente, le “forze presenti in Parlamento” a cui si riferisce sono quelle elette sotto le bandiere del Movimento 5 stelle. “Bersani – racconta al Foglio un esponente del Pd vicino al segretario – metterà sul piatto alcuni temi cari ai grillini e cercherà di governare con loro sul modello seguìto in Sicilia da Rosario Crocetta”. I punti descritti dal segretario costituiscono un semplice e generico elenco di buoni propositi (“riforma delle istituzioni; riforma della politica; nuova legge sui partiti; costi della politica; moralità pubblica e privata; difesa dei ceti più esposti alla crisi; impegno per una nuova politica europea per il lavoro”) ma d’altra parte offrono un quadro di quelle che sono le intenzioni del segretario del Pd: si prova a formare un governo, non si chiede per nessuna ragione una mano solo a Berlusconi (“il nostro elettorato non capirebbe”, sussurrano nel Pd), si tenta di inchiodare i grillini alle loro responsabilità e si prova a sopravvivere nei prossimi mesi con una doppia consapevolezza: andare al voto subito sarebbe un suicidio ma d’altronde questo eventuale governo non potrà durare a lungo.
“Bersani – ci spiega ancora la nostra fonte nel Pd – sa che per lui, e la nostra generazione, si è concluso un ciclo ma sente il dovere di tentare il tutto per tutto per tenere a galla la nave. Il segretario sa che un governo come questo più di qualche mese però non potrà vivere e se in Parlamento si troveranno i numeri per fare le riforme istituzionali l’orizzonte massimo di durata, nella migliore delle ipotesi, sarà la data delle Europee del prossimo anno. Dopo in campo ci sarà qualcun altro, speriamo Matteo”. Matteo, naturalmente, sarebbe Renzi e in queste ore, a quanto risulta al Foglio, il sindaco ha lasciato intendere che sull’ipotesi di una candidatura, a determinate condizioni, ci ragionerebbe seriamente (“anche nel fronte bersaniano – riconosceva ieri l’Unità – si deve ammettere che in caso di nuove elezioni non anche a breve non sarà l’attuale segretario a giocare il ruolo del candidato premier del centrosinistra”).
Quanto alla tempistica delle operazioni, sono due le date sicure che andranno appuntate sull’agenda: la prima è il 15 marzo, giorno in cui dovrà insediarsi il Parlamento; la seconda è il 15 aprile, giorno in cui le Camere si riuniranno in seduta comune per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. In un primo momento, ieri, una piccola parte del centrosinistra si era convinta che un accordo, anche non esplicito, con il Pdl fosse necessario per trovare quantomeno un nome comune da proporre come successore di Giorgio Napolitano. Il problema però, come hanno fatto notare a Bersani i suoi costituzionalisti di fiducia, tecnicamente non esiste; e considerando che nell’elezione del presidente della Repubblica dalla terza votazione in poi è sufficiente avere la maggioranza relativa dell’Assemblea (e non i due terzi) si scopre che la somma dei deputati e dei senatori di Monti e di Bersani va ben al di là della maggioranza relativa (l’assemblea è formata da 1.006 delegati, tra deputati, senatori e rappresentanti di regioni, e le truppe di Monti e Bersani in tutto sono 534, dunque più della metà). Si tratta di numeri, certo. Ma numeri che ci aiutano a capire una delle ragioni per cui il segretario del Pd non vede la necessità di allearsi con il Caimano. Almeno per il momento. Claudio Cerasa per il Foglio, 27/2