Assalto a Wadi Deif, Siria, cronaca inviato

Assieme ai ribelli durante l’attacco a una base militare strategica. La

guerra ha trasformato il cuore più raffinato del mondo arabo in una nuova Cecenia. E’ la Siria del 2013 o è la Cecenia del 1994, non si capisce bene. Questo giorno di febbraio è ideale per un assalto che si attende da mesi, cade pioggia pesante, elicotteri e aerei non si alzeranno in volo per colpire i ribelli. Ma il paesaggio è diventato color fango, una patina che cola sulla strada, s’allarga sui prati, si attacca sotto le scarpe, prende morbidamente la forma dei cingoli quando passano i carri armati. Sembra di muoversi e di respirare in una foto seppiata. Anche i ribelli partecipano a questa illusione cecena: dopo quasi due anni di guerra gli attivisti beneducati che pensano alla politica e alle riforme sono spariti, finiti in esilio sui blog e su Facebook, magari dentro appartamenti turchi o nascosti dietro pseudonimi a Damasco. Qui all’aperto, tra le città di Idlib e Hama, la selezione e le condizioni ambientali hanno creato battaglioni di barbuti con cappelli di lana, giberne allacciate su piumini da inverno, qualche mimetica, capelli rasati sui lati, fasce nere sulla fronte a ribadire ora e per sempre che “Non c’è altro Dio all’infuori di Allah”.

All’assalto si va in macchina, sono tre chilometri di strada dal punto di ritrovo, poi si parcheggia radente ai muri tra le viuzze delle due ultime file di case, tutte abbandonate. Ci si unisce a un altro gruppo che sta facendo tappa dentro un appartamento vuoto al primo piano, il più sicuro, con le finestre oscurate. Uomini tutti scalzi, fila di scarpe fuori dalla porta, prima una tazza di caffè e poi stanno chini sulle armi smontate sopra i tappeti per l’ultima pulizia. Qualcuno accende la stufa a gasolio e ora fili di vapore acqueo salgono dai giacconi mimetici. Vuoi vedere la base di Assad? Un ribelle mi porta in cima alla casa a due piani, si sporge da un angolo, indica a poche centinaia di metri. Sopra una linea di tetti, sotto i filari di alberi e una zona abbandonata in varie microtonalità di fango. Botti in uscita, dalla nostra parte, botti in arrivo, i loro. Eccoli, la caserma ed ecco l’esercito di Assad, che ossessiona e riempie i discorsi di tutti i ribelli, i loro piani, i sermoni, le barzellette, le allusioni oscene. Si torna dentro, perché è il momento della preghiera. Non è un posto per atei, ma la riconciliazione con il sacro è un momento discreto e rapido. Bismillah ahraman arrahim, in nome di Dio il più misericordioso e il più compassionevole, prostrati su due file, un minuto di raccoglimento, si torna all’aperto sotto la pioggia. Sulla strada avanzano due carri dei ribelli con la bandiera bianca e nera del gruppo islamista Ahrar al Sham. Ogni carro fa da apripista a una decina di ribelli a piedi, e tutti avanzano in ordine sparso verso la base. Non c’è misericordia, non c’è compassione

Nella Siria cecenizzata la parte dei russi cattivi perdenti la fanno i soldati del presidente Bashar el Assad, comandati da ufficiali alawiti terrorizzati all’idea di essere sconfitti in guerra e di essere costretti a lasciare il potere che custodiscono da quarant’anni e quindi disposti a impartire qualsiasi tipo di ordine contro ribelli e civili – almeno fino a quando i loro sottoposti obbediscono. L’esercito del governo di Assad è straniero dentro il suo paese. Qui a Maarat al Numan se ne sta chiuso dentro la base di Wadi Deif, che sorveglia l’autostrada tra Aleppo e la capitale Damasco in una sua giuntura strategica. Senza questa arteria i rifornimenti per le truppe che ancora resistono a nord dovrebbero fare giri immensi oppure cessare del tutto. I media internazionali continuano a girare attorno allo stallo militare di Aleppo come falene attratte dalla fiamma di una candela dallo scorso luglio: otto mesi passati sugli stessi marciapiedi che non cambiano. Ma è a Maraat al Numan che si gioca una parte essenziale della partita tra guerriglieri e governo.

L’esercito è chiuso dentro la base, ma aggredisce lo stesso. Ci sono almeno 25 carri armati all’interno che sono usati come pezzi fissi d’artiglieria, e altri cannoni sulle piazzole, e tutti bombardano attorno per un raggio di 15 chilometri. Vicino. Lontano. Vicino. Molto vicino. “Shelling”, “Random shelling”: cannonate, cannonate a casaccio. L’inglese scheletrico dei ribelli è fatto di termini fondamentali. A volte è come un tuono remoto, oppure è come una bolla d’aria che rumoreggia nella stufetta a gasolio che in casa scalda i pochi giorni freddi di questo paese, prima che ritorni il sole. Altre volte i botti sono così vicini che puoi distinguere i due tempi del rumore, prima la martellata del proiettile che impatta e poi l’onda metallica che viaggia sull’erba bagnata, passa tra gli alberi, gioca tra gli angoli di pietra delle case vuote, e dopo ancora viene la graniglia dei detriti che picchietta ricadendo sul terreno. Qasif, si dice in arabo. I ribelli avanzano verso la base.

Maarat al Numan subisce il qasif/shelling da mesi. I suoi 160 mila abitanti sono scappati, l’artiglieria siriana l’ha trasformata in una città fantasma. Tutte le considerazioni sacrosante sull’incognita del dopo Assad, sul pericolo dei gruppi estremisti, sulla paura per la sorte dei cristiani e delle altre minoranze siriane dovrebbero prendere una pausa per una riflessione su questo: il mono-partito Baath al potere e la dinastia Assad hanno scelto di bombardare a caso le città per il semplice motivo che non vogliono concedere elezioni libere, perché sanno di non avere i numeri dalla loro parte. Non hanno gli elettori, però hanno i corazzati e gli aerei: il risultato di questa scelta, 23 mesi dopo, è che si è creata una Cecenia dove un tempo batteva il cuore più raffinato di tutto il mondo arabo. Come in Cecenia, una guerra cominciata come una battaglia di autodeterminazione è dirottata dagli islamisti verso un obiettivo – la creazione di uno stato islamico – che non c’entra nulla con le ragioni della rivoluzione ai suoi inizi. Gli islamisti sembrano i più adatti, proprio come in Cecenia, a sopportare il livello di brutalità della controrivoluzione ordinata dal governo di Damasco. “Kaitna ilhabat Hafiz al Assad!”, il nostro leader finché vivremo è Hafiz al Assad, era il vecchio slogan del regime, ai tempi di Hafiz, padre del presidente Bashar. Ora nelle pause tra un colpo d’artiglieria e l’altro i ribelli che assediano Wadi Deif lo urlano a ritmo modificando il finale: “Kaitna ilhabat Sayyedna Muhamad!”: il nostro leader finché vivremo è il profeta Maometto! Come tra ceceni e russi, la guerra si è trasformata in uno stallo attorno alle grandi città, si è spezzettata in tante scene di combattimento difficili da seguire, si consuma nell’indifferenza dei governi esterni. Come non bastasse, le armi usate sul terreno di scontro sono al novanta per cento residuati del grande arsenale bellico sovietico, dagli elicotteri da guerra Hind ai carri armati, corazzati progettati per attaccare la Nato nelle pianure europee e che ora invece girano e sparano tra i vicoli delle città siriane.

L’assalto arriva dopo parecchi tentennamenti e un piano studiato per mesi. E’ la terza volta che i ribelli tentano di prendere Wadi Deif, le altre volte è finita in disastro per disaccordi interni. Questa volta lo sforzo è ambizioso. Partecipano katiba da tutta l’area attorno. Le katiba sono i “battaglioni”, almeno nell’arabo trionfante della rivoluzione, in realtà possono contare anche soltanto dieci uomini, in media ne hanno quaranta. Per questa operazione le katiba coinvolte sono così tante che il numero totale di ribelli è attorno al migliaio.

Ci sono pure i carri armati, cinque, catturati al nemico. Prima dell’alba dell’attacco sono tenuti nascosti in un villaggio vicino. I ribelli all’ingresso del villaggio deviano il poco traffico, fanno fare alle macchine un giro lungo all’esterno per evitare gli sguardi dei curiosi. Se gli aerei di Assad sapessero che fra quelle case ci sono corazzati, le raderebbero al suolo. Entriamo grazie ai buoni uffici di un attivista locale. Un carro è parcheggiato all’ombra dell’ingresso di un’antica chiesa diroccata, resta in piedi soltanto la facciata. La vista è incongrua: sotto il carro verde – giusto una scritta arancione a bomboletta spray sui fianchi a distinguerlo da quelli del governo – e sopra la rovina sacra che incombe e offre riparo. Chiedo a un subcomandante locale che zoppica dentro una mimetica: all’assalto parteciperanno anche i gruppi estremisti come Jabhat al Nusra? Il gruppo è stato messo sulla lista dei terroristi globali dagli Stati Uniti per l’affiliazione con al Qaida in Iraq. Esita, guarda l’attivista con me, che è uno che gira senza armi, è ancora innamorato della prima fase della rivoluzione e odia gli islamisti, come a dire: “Che devo rispondere ora?”. Un cenno d’assenso. “Sì, ci sono anche loro, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto che possiamo avere, ma al comando dell’operazione non ci sono loro, ci siamo noi”. Anche i cugini siriani di al Qaida in Iraq danno l’assalto all’ultimo partito baathista rimasto dopo la sconfitta e l’esecuzione di Saddam Hussein a Baghdad.

I carri vanno avanti e indietro sulla strada che costeggia la base. Tra gli alberi si vede un macchia bianca, è un edificio che spunta sopra il muro di recinzione della base, da sopra sparano, sotto i ribelli sono acquattati a coppie dietro ogni tronco e sparano di rimando. Qualcuno scava una buca perché l’assalto alla base non si consumerà in poche ore, è programmato per andare avanti per giorni. Poco a nord di qui l’assalto alla base militare di Taftanaz è durato dal primo al 10 gennaio. Da Taftanaz partivano gli elicotteri che bombardano la zona, ora il governo li ha spostati dentro lo stadio cittadino di Idlib, usato come eliporto militare improvvisato, e la base militare è in mano agli islamisti. Sopra la torre di controllo sventola la bandiera nera del jihad. Se ti avvicini all’ingresso e chiedi di poter fare fotografie, quattro uomini magri dentro i vestiti neri, un paio di loro non arrivano a vent’anni, rifiutano. Taftanaz ora è loro, non vogliono che nessuno sappia cosa succede e chi c’è dentro – il governo ogni tanto passa con i jet  e bombarda il suo ex aeroporto.

Anche a Wadi Deif si tratta di convincere i soldati e gli ufficiali all’interno che ogni resistenza è futile e che più combattono peggio sarà per loro, meglio scappare che accanirsi a difendere metro per metro. Secondo il piano un lato è lasciato libero, in modo da aprire una chance di fuga a chi vuole mettersi in salvo. Gli altoparlanti dei ribelli portati fin sotto al perimetro della base offrono agli assediati la possibilità di disertare. L’attacco è ancora in corso.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Daniele Raineri   –   @DanieleRaineri

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata