A Bruxelles, dove lo stato non esiste
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All'indomani della sparatoria di Forest, la capitale belga continua a fare i conti col vuoto lasciato dalle autorità politiche e giudiziarie e che i terroristi provano a colmare. Tra esperimenti multiculturali falliti e criminalità
Forze di sicurezza pattugliano il centro di Bruxelles all'indomani degli attentati di Parigi
di Luca Gambardella | 16 Marzo 2016 ore 19:40 Foglio
Bruxelles. La casa dove abitava Salah Abdeslam, uno degli attentatori di Parigi che il 13 novembre 2015 hanno ucciso 130 persone, si affaccia sulla piazza più importante di Molenbeek, a Bruxelles, all'angolo con rue du Comte de Flandre, a pochi metri dal palazzo del Comune. Circa quattro mesi fa, all’indomani della strage, centinaia di residenti hanno manifestato in piazza la propria solidarietà alle vittime di Parigi. Quella manifestazione silenziosa voleva essere la dimostrazione che Molenbeek non era la “Raqqa d’Europa” come i giornali la descrivevano. Un’etichetta sgradita ai residenti del quartiere, cui da tempo ne è affibbiata un’altra: li chiamano “i pazzi”, quelli che “si sentono al di sopra della legge”, come dicono alcuni commercianti della zona.
Martedì, in un altro quartiere di Bruxelles, c’è stata una nuova operazione di polizia contro le cellule terroristiche responsabili degli attentati di Parigi. Forest è una zona periferica della città, non lontana da Anderlecht. Durante una perquisizione di un appartamento condotta dalle forze di polizia belghe e francesi qualcuno ha aperto il fuoco contro gli agenti che hanno risposto uccidendo Mohamed Belkaid, un algerino di 36 anni. Di Belkaid si sa poco: immigrato illegalmente nel paese, gli investigatori non avevano alcun fascicolo aperto su di lui per terrorismo, tranne che una vecchia condanna per furto del 2014. Eppure, nella sua abitazione di Rue du Dries a Forest, la polizia ha trovato un kalashnikov, 11 caricatori, libri sul salafismo e una bandiera dello Stato islamico. Belkaid fa parte di quella galassia di individui legati all’estremismo islamico e considerati minacce dalle autorità.
Secondo le autorità del Belgio, dalla strage di Parigi a oggi la polizia ha perquisito oltre 100 case, ha fermato circa 80 persone, interrogate perché sospettate di essere coinvolte negli attentati. Undici cittadini belgi andati a processo e il Consiglio di sicurezza nazionale ha mantenuto il livello d’allerta terrorismo al massimo per il rischio attentati. Nonostante i numeri siano notevoli, le forze di polizia di altri paesi europei, Francia in primis, hanno messo in dubbio l’efficacia della risposta antiterrorismo delle autorità politiche e giudiziarie del Belgio. Un mese fa, alla vigilia di un incontro con il suo omologo francese Manuel Valls, il primo ministro belga Charles Michel si era difeso, dichiarando che “il Belgio non è un’area senza legge”.
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Dopo gli attentati di Parigi, mentre le camionette dell’esercito sfrecciavano davanti alle istituzioni europee e i cecchini sorvegliavano la Grand Place appostati sui tetti, gran parte dei media locali riportavano le dichiarazioni di Philippe Moureaux, il vecchio borgomastro di Molenbeek, alla guida dell’amministrazione comunale dal 1992 al 2012. I cittadini lo considerano il responsabile principale dell’amministrazione fallimentare del quartiere, definito dai giornali la “Raqqa d'Europa”. “Io sono quello che ha combattuto il clientelismo da queste parti”, si era difeso il sindaco socialista dalle colonne del Soir. Per gli abitanti del quartiere, però, nel “laboratorio multiculturale” che voleva creare Moureaux, qualcosa è andato storto. Tra le case accatastate di Molenbeek covava da anni un sentimento religioso radicale e ciò è avvenuto nella piena consapevolezza delle autorità che, dicono gli abitanti, “sapevano, ma non hanno fatto niente”.
“Sin dal loro arrivo gli immigrati venivano mandati a vivere nei quartieri operai, quelli più poveri”, dice al Foglio padre Mark Butaye, monaco benedettino della Chiesa cattolica di San Domenico, una delle più grandi della città. “In quartieri come Anderlecht o Molenbeek esiste un grave problema abitativo e la concentrazione di abitanti per chilometro quadrato è elevatissima”. E' un problema cui hanno contribuito anche i ricongiungimenti familiari degli immigrati nordafricani. “La verità è che le autorità hanno voluto marginalizzare il problema, i più poveri andavano con i più poveri e anche se c’era criminalità questa veniva limitata in aree specifiche”. Il sistema di governo della città, di tipo federale, ha spesso portato a un'amministrazione inefficiente e parcellizzata sul territorio. Ogni municipalità di Bruxelles ha un proprio corpo della polizia (oggi sono ridotti a sei) su un territorio ristretto, con nemmeno un milione e mezzo di abitanti. In Belgio la fiducia nella polizia, che assume forza lavoro scarsamente specializzata con profondi legami col territorio e con gli abitanti dove opera, è generalmente bassa. “Le moschee riconosciute dalle autorità tengono da sempre riunioni periodiche con l’amministrazione locale”, ci racconta Bari Didouan, responsabile della moschea Badr, la più antica di Molenbeek. “Ogni volta che segnalavamo il problema della criminalità, dello spaccio, il comune ci ha ignorato”.
“Qui a Bruxelles non esistono chiare linee di demarcazione sociale. Lo stesso vale per la radicalizzazione religiosa”, ci racconta padre Botaye: “Sì, c’è povertà e disoccupazione. Ma prendete Sharia4Belgium (la più grande organizzazione di terroristi islamici sgominata in Belgio nel 2014, ndr): reclutava tra i più poveri, ma anche tra le classi agiate e alcuni suoi membri erano laureati. Erano accomunati solo dal desiderio di combattere per qualcosa”. Dalle stragi di Parigi il flusso di fedeli è rimasto più o meno uguale (“Ci sentiamo al sicuro ma restiamo prudenti”, dice). “Il fenomeno dell’integralismo non è nato ieri. Nella città esistono moschee dove gli imam recitano i sermoni e pregano in arabo, violando così la legge belga che assicura la libertà confessionale ma solo se professata in lingua francese, in modo che sia comprensibile a tutti”. “Qui ci saranno una ventina di moschee non riconosciute”, dice Didouan.
Qualche mese fa il magazine Politico aveva pubblicato un articolo di Tim King in cui spiegava in che senso il Belgio si può definire uno stato fallito. "Parte del motivo per cui la vita qui è semplice è perché lo stato, in generale, è assente. Le persone vanno avanti contando su strutture di sostegno informali. In larga parte, non hanno bisogno della legge". Disfunzioni su cui conta l'estremismo islamico per poter attecchire.
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