Con l’accordo tirato per la giacca, ora iniziano i guai seri per Cameron
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Il premier britannico ottiene un sì dall’Ue dopo una giornata burrascosa. A Londra i suoi si sono incattiviti
di David Carretta | 20 Febbraio 2016
Bruxelles. Ora per David Cameron iniziano i guai più seri, quelli che dovrà affrontare nel beato isolamento in patria, una volta tornato a Londra dalla sua battaglia di Bruxelles. Raggiunto l’accordo con gli altri capi di stato di governo su una nuova relazione tra il Regno Unito e l’Unione europea, il primo ministro britannico dovrà convincere i suoi cittadini a votare per lo “stay” nel referendum che dovrebbe tenersi il 23 giugno. Prevarranno la razionalità e la ragione economica oppure i malumori nei confronti di un’Unione europea percepita come invadente, burocratica e minacciosa con le orde di migranti che arrivano dall’est europeo o sbarcano sulle coste del Mediterraneo? Un sondaggio della Tns di ieri dice che il 36 per cento dei britannici è pronto a votare per l’uscita, contro il 34 che vorrebbe restare. Boris Johnson, il carismatico sindaco di Londra, è stato soprannominato “Broxit” dal Financial Times per la sua incapacità di scegliere sulla “Brexit”, tra l’ego smisurato e gli interessi del paese. I tabloid bocciano l’accordo definendolo puramente “cosmetico”. Il leader dell’eurofobo Ukip, Nigel Farage, gode a dire quella che è una mezza verità: “Cameron è passato da parlare di cambiamento fondamentale a elemosinare concessioni minori”. Gli europeisti la pensano allo stesso modo. “E’ un’occasione mancata”, secondo l’europarlamentare francese, Sylvie Goulard.
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In realtà, Cameron ha ottenuto quello che aveva chiesto lo scorso novembre: la possibilità di tagliare per diversi anni i benefici sociali dei lavoratori europei immigrati nel Regno Unito e dei loro figli rimasti nei paesi d’origine; un trattamento differenziato per la City di Londra rispetto ai membri dell’euro sulla regolamentazione bancaria e finanziaria dell’Ue; la garanzia che i britannici non saranno costretti a partecipare alla “Unione sempre più stretta”. Insomma, una serie di microeccezioni che si aggiungono alle macro autoesclusioni dall’euro, dalla libera circolazione senza frontiere di Schengen, dalla cooperazione di polizia e giudiziaria, e dalla Carta dei diritti fondamentali. Ma il terribile Farage e la dolce Goulard hanno ragione a dire che Cameron si è concentrato più su piccole concessioni per il Regno Unito che sul cambiamento e le riforme di cui avrebbe bisogno l’Unione europea. Il capitolo su competitività, commercio internazionale e burocrazia – uno dei quattro “baskets” del negoziato – è stato completamente trascurato da Cameron.
Il Regno Unito va tenuto dentro a tutti i costi per la sua tradizione democratica, la sua potenza militare e la sua visione liberale dell’economia. E per non lasciare l’Ue in mani franco-tedesche. Ma i leader europei avevano anche un’altra ragione per sbarazzarsi in fretta della questione britannica. Il vero scontro al vertice è stato sulla crisi dei rifugiati, che mette a repentaglio l’intera costruzione. La lunga cena di giovedì notte sull’immigrazione si è trasformata in una bagarre a ventotto, tra chi come la Germania vuole tenere le frontiere aperte e chi pretende di mettere in quarantena la Grecia. Alla fine è stata data un’ultima possibilità a Angela Merkel di frenare i flussi grazie alla cooperazione di Ankara, con un nuovo vertice straordinario tra l’Unione europea e la Turchia a inizio marzo. Ma, con la decisione di prepararsi a inviare aiuti umanitari europei in Grecia – una prima volta nella storia dell’Ue, come se la Repubblica ellenica fosse un paese terzo – si inizia a preparare il piano B: centinaia di migliaia di migranti bloccati in Grecia a causa dell’effetto domino dei muri e delle barriere nazionali.
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