Draghi, europeista di ultima istanza

Il banchiere centrale assesta una sferzata unitaria all’Europa che, dai titoli di stato alle banche, dal Brexit all’immigrazione, è tentata dalle vie di fuga nazionali. Uno stop a Weidmann, un sollecito a Renzi

di Marco Valerio Lo Prete | 15 Febbraio 2016 ore 20:31

Roma. “Da economista, credo che l’euro abbia un futuro”. Da economista. Nell’ironico understatement utilizzato da Mario Draghi, il banchiere centrale cui tutti gli osservatori internazionali attribuiscono il merito di avere finora tenuto insieme la moneta unica, c’è anche la presa d’atto della difficoltà di questa fase storica in Europa. Perché l’euro può avere un futuro sulla carta, ma rischia grosso se i leader politici non faranno la loro parte. “Per rendere l’Eurozona più resiliente, sono necessari contributi da tutti i fronti delle diverse politiche”, ha detto Draghi intervenendo al Parlamento europeo. Un invito ribadito più volte nel botta e risposta con i parlamentari, con frequenti appelli a “riforme strutturali” e “maggiore integrazione europea”. Nella testa del banchiere centrale, questi appelli non avevano nulla di rituale. Perché “l’Eurozona e più in generale l’Unione europea si confrontano con sfide significative”, ha detto in esordio. Sfide che solo in parte hanno a che fare con la congiuntura economica, pur non delle più facili, e con la politica monetaria che la Bce è pronta a rendere ancora più espansiva. “I dati sull’attività economica e sul commercio sono stati più deboli delle attese, le turbolenze sui mercati finanziari si sono intensificate e i prezzi delle materie prime sono ulteriormente scesi”. Le cause? La crescita che rallenta nei paesi emergenti, la conseguente divergenza dei cicli economici tra paesi avanzati ed emergenti, la domanda globale fiacca. Il settore bancario è il più colpito perché “altamente sensibile” a suddetti sviluppi, poi perché gli istituti di credito faticano ad aggiustare il proprio modello di business in un ambiente di bassa crescita e bassi tassi d’interesse. 

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Tuttavia Draghi, più che i panni dell’economista, è tornato a vestire quelli dell’europeista di ultima istanza. In una fase che non a caso Simon Nixon, sul Wall Street Journal, sintetizza in questo modo: “Ci sono molte ragioni diverse per cui l’Unione europea potrebbe crollare nelle prossime settimane, ma tutte hanno in comune un aspetto: l’incapacità dei politici nazionali di adottare una prospettiva europea quando affrontano comuni sfide continentali”. Così i dossier più citati dal presidente dell’Eurotower sono stati il rischio di un’uscita del Regno Unito dall’Ue (di cui discuteranno giovedì e venerdì i capi di governo), l’Unione bancaria da completare (con un velato stop a chi corre troppo per rinazionalizzare i rischi, caro Jens Weidmann), la politica economica da rimodulare (in senso espansivo sul fronte fiscale – investimenti pubblici e meno tasse – ma solo per chi ha i conti in ordine, e con le riforme da far avanzare, caro Matteo Renzi). Mancava l’immigrazione, tema fuori dall’orbita dell’Eurotower, su cui comunque sembrano all’opera le stesse pulsioni centrifughe: Parigi contro Berlino sui limiti all’accoglienza, Roma contro Berlino sull’ipotesi di una mini Schengen, paesi dell’est riuniti nel gruppo Visegrad per contestare l’aperturismo di Merkel. Chacun pour soi, anche qui.

A proposito di Brexit, Draghi ha ripetuto più volte che “la Bce non è un attore dei negoziati”, tuttavia ha indugiato eccome sulle potenzialità distruttive di un accordo venuto male. Secondo un numero crescente di osservatori, l’eventuale Brexit renderebbe definitivamente monco il processo di integrazione europeo; allo stesso tempo evitare la Brexit a tutti i costi – mettendo in discussione princìpi cardine del mercato unico per addolcire l’elettorato inglese – può rafforzare quei politici che saranno tentati dalla strada delle minacce e degli accordi unilaterali per il proprio paese. Draghi ha indicato uno strettissimo crinale intermedio. Primo: è vitale proteggere il mercato unico e l’Unione monetaria. Secondo: “L’obiettivo ideale” è che sia Bruxelles sia Londra “abbiano benefici” dall’intesa. Possibile che tutto ciò si tenga? Sì, se Bruxelles e Londra  potranno “continuare a lavorare assieme”, mentre l’Eurozona si ritaglierà la possibilità di “una maggiore integrazione”.

Su quest’ultimo punto, le prove generali non offrono uno spettacolo esaltante. Si prenda l’Unione bancaria. Draghi ne ha lodato i passi in avanti, ma ha sottolineato con tale veemenza che “uno status incompiuto dell’Unione economica e monetaria può diventare fonte di fragilità sistemica” da dover poi correggere un po’ il tiro: “La direttiva Brrd (quella su bail-in e risoluzione degli istituti in difficoltà, ndr) è stato un cambiamento in meglio. Ma…”. C’è sempre un “ma”, nelle riflessioni di Draghi, quando si sofferma su quella che ha definito in passato la più importante riforma della governance economica europea dai tempi dell’introduzione dell’euro. “Ma abbiamo bisogno degli altri due pilastri”: bene il supervisore unico (Ssm); bene le regole comuni sul bail-in e il Sistema unico di risoluzione (Srm), anche se “nei due casi avuti finora, in Portogallo e in Italia, le regole sono state implementate in maniera difforme”; solo benino il Fondo unico di risoluzione che sarà completo nel lontano 2024; male infine l’assicurazione comune sui depositi a livello europeo che ancora non si vede. Un deputato grillino, Marco Zanni, ha chiesto cosa ne sarà della nuova condizione posta dalla Bundesbank sulla strada del completamento dell’Unione bancaria: o si assegna un qualche rischio ai titoli sovrani presenti nei bilanci delle banche nazionali, oppure niente garanzia comune sui depositi. Draghi a quel punto ha parlato in italiano, e soprattutto ha parlato chiaro: “Dai tempi di Deauville i titoli di stato di fatto non sono risk-free. Ma non possiamo essere solo noi, in Europa, a prendere questa iniziativa (ai fini regolatori, ndr). Il Comitato di Basilea sta riflettendo da tempo sul punto, coinvolgendo anche Stati Uniti e Giappone. Occorrerà affrontare la questione con molta ponderazione”. Molta ponderazione sulla ponderazione dei titoli di stato: un gioco di parole che – come anticipato sabato dal Foglio – sembra voler frenare fughe in avanti della Bundesbank che possono generare ulteriore instabilità nel settore bancario e che per certo celano un disegno – anche qui – di rinazionalizzazione di quei rischi che finora ritenevamo di poter affrontare in comune. 

Draghi infine ha rivendicato il “successo” del Quantitative easing (allentamento monetario): “Circa la metà della crescita europea degli ultimi due anni può essere attribuita alla politica monetaria espansiva. Quella monetaria è stata l’unica politica di stimolo. L’unica”. Anche se “sul fronte dell’inflazione la situazione è meno soddisfacente”. Le Borse europee hanno chiuso in terreno positivo dopo la rassicurazione che a inizio marzo la Bce potrà rivedere, irrobustendolo, l’acquisto di titoli e asset. Ai governi è rivolto l’ennesimo appello a non perdere il tempo concesso da Francoforte: “Idealmente oggi la politica fiscale dovrebbe essere espansiva – ha detto Draghi – Per tutti? No, la politica fiscale può essere utilizzata da chi ha lo spazio sufficiente per usarla”. Per gli altri, governo Renzi incluso, ci sono le regole del Patto di stabilità e crescita e l’urgenza di rivedere la “composizione” della politica fiscale: “Più investimenti pubblici e meno tasse. Oltre a quelle riforme strutturali che stimolano la domanda, per esempio attraendo investimenti”. Fuori dagli schemi consueti, un europeista di ultima istanza.

Categoria Estero

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