Sulle alture del Golan, Israele cura i feriti della guerra siriana
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Le squadre di medici israeliani accolgono i feriti in tre ospedali. La strategia di distensione e il calcolo geopolitico
Il team paramedico dell'esercito israeliano che si occupa di prendere i feriti
di Daniele Raineri | 09 Febbraio 2016 ore 18:11 Foglio
Golan (Israele). Israele svela alla stampa una strategia della distensione con i ribelli e i civili siriani al suo confine nord, lungo la linea di difesa ipermilitarizzata che corre tra le alture del Golan. Squadre di paramedici dell’esercito israeliano accolgono feriti sul confine e li portano in tre ospedali della zona, dove ricevono cure e poi sono riportati al confine con la Siria. L’assistenza è offerta a chiunque si presenti davanti ai soldati. Ci sono casi che vanno in oncologia – una bambina di 8 anni alla quale è stato asportato un tumore di sei chilogrammi – il 10 per cento dei pazienti è composto da donne e il 17 per cento da bambini. Ma è una zona di guerra e non è una sorpresa che la maggior parte delle ferite sono conseguenza di bombardamenti e di combattimenti: per il 90 per cento, i feriti sono uomini e la maggioranza dei casi va in ortopedia. “Qumbula’ncudia”, dice un giovane dal suo letto, in arabo vuol dire “bombe a grappolo”, mostrando la gamba imprigionata in una incastellatura complicata di metallo che dovrebbe salvargliela.
L’operazione è sospesa tra lo sforzo umanitario, la diplomazia locale (perché questo tipo di assistenza ha un impatto diretto sulle comunità di siriani che vivono appena al di là del confine) e la fantapolitica mediorientale (Israele e Siria sono ancora in guerra dal punto di vista formale e il governo del presidente Bashar el Assad ha stretto una alleanza strategica con due avversari diretti di Gerusalemme, Hezbollah e l’Iran). “Alcuni feriti siriani ci arrivano in anestesia, quando si risvegliano gli diciamo: ‘Sei in Israele’”, spiega al Foglio Khassis Shoukry, un chirurgo arabo cristiano che gira per i reparti con una croce appesa al collo dando spiegazioni in tre lingue, con leggero accento romano: “Sono appena tornato da una vacanza in Italia – dice – mia moglie mi ha costretto a una sessione intensa di shopping all’outlet di Serravalle”. Nella guerra brutale che si combatte in Siria, dove la maggior parte degli ospedali è stata distrutta e che ha per vittime principali i civili, l’assistenza sanitaria è un asset cruciale e basta considerare quello che accade all’altro capo del paese, sul fronte nord di Aleppo, dove i feriti sul fronte devono essere trasportati verso il confine turco e da lì sopravvivere fino agli ospedali.
Shoukry ci accompagna tra le corsie dello Ziv Medical Center di Zefad, un piccolo ospedale universitario da 330 letti a 15 chilometri dal confine con il Libano e a 30 dalla Siria. Come fate a essere sicuri di chi state curando? “Il nostro compito è salvare vite, noi non facciamo distinzioni fra i pazienti”. Su quattro uomini visitati solo uno dice di essere un combattente, con il Jaish al Hur, l’Fsa, che rappresenta il 70 per cento delle forze d’opposizione qui al sud, dicono al Foglio fonti militari israeliane. Ha perso una gamba e l’altra è malridotta per un bombardamento russo. “Conoscete qualche caso di ricovero di uomini di Jabhat al Nusra, al Qaida in Siria, qui con voi?”. Gli uomini nei letti scuotono la testa, “Eravamo in otto qui, nessuno di Nusra”. Dice Shoukry che tutto è cominciato con sette ricoveri il 16 febbraio del 2013, in modo molto più discreto e riservato, ma ora il numero dei casi trattati è arrivato a 570. Spiega che le tecniche usate sono all’avanguardia, i casi che potrebbero essere risolti con un’amputazione sono invece affrontati con procedure mediche più complesse e lunghe – che però salvano l’arto. Sarebbe un paradosso per Israele offrire cure mediche avanzate a uomini che potenzialmente potrebbero fare parte di battaglioni islamisti che odiano Israele, ma all’origine dell’operazione deve essere stato fatto un calcolo: è meglio che i siriani che vivono a ridosso del confine capiscano che hanno un vicino che riconosce il fattore umano prima dell’inimicizia politica e che quindi esiste una speranza di coabitazione futura. Uno dei paramedici racconta al Foglio: “Una volta ho intubato un ragazzino colpito da un proiettile alla testa. Sono andato a trovarlo in ospedale, quando mi ha visto mi ha abbracciato”.
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