Il procuratore egiziano smentisce la polizia sulla morte di Giulio Regeni
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Si teme che Giulio Regeni sia incappato in quell’apparato semiclandestino di polizia che sequestra, tortura e a volte fa sparire centinaia di persone – al di fuori di ogni procedura giudiziale
di Daniele Raineri | 05Febbraio 2016
Roma. Ieri il procuratore egiziano che guida le indagini sulla morte dello studente italiano Giulio Regeni ha sconfessato in modo plateale la polizia, che fino al mattino, quindi una mezza giornata dopo il ritrovamento del corpo, aveva parlato di “incidente stradale”. Il generale Khaled Shabaly, capo del dipartimento di polizia di Giza (una grande area metropolitana contigua al Cairo), aveva detto al sito Youm 7 che “non ci sono segni di violenza”. Il vice della sezione investigazioni criminali di Giza, Alaa Amzi, aveva anche lui sostenuto che secondo l’indagine iniziale si era trattato di “un incidente stradale”. Il procuratore, Ahmed Nagi, ha detto invece che ci sono segni di tortura: ferite da coltello e da percosse, bruciature di sigarette, orecchie tagliate. Perché versioni così differenti e incompatibili? Forse Nagi ha visto subito che, considerato l’obbligo di restituire il corpo, la versione dell’incidente in strada sarebbe collassata presto non appena ci fosse stata un’autopsia in Italia.
L’Italia ha convocato l’ambasciatore egiziano a Roma, Amr Mostafa Kamal Helmy, e ha chiesto piena cooperazione per un’indagine italo-egiziana sulla morte dello studente. La Farnesina chiede che esperti italiani lavorino assieme agli investigatori egiziani.
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Il Cairo è una metropoli caotica dove s’intrecciano le storie di milioni di abitanti e per ora non si può indicare con sicurezza una pista e non altre. Lo Stato islamico compie attacchi sempre più vicini al centro della città, l’ultimo lunedì scorso a Giza – ha ucciso cinque poliziotti a un posto di blocco. Però è significativo che ieri i primi sospetti dopo il ritrovamento del corpo dello studente italiano siano caduti sulle forze di sicurezza – se non altro come segno del clima che si respira in Egitto. Si teme che Giulio Regeni sia incappato in quell’apparato semiclandestino di polizia che sequestra, tortura e a volte fa sparire centinaia di persone – al di fuori di ogni procedura giudiziale. L’esistenza di questo apparato è stata descritta in un articolo apparso sul New York Times il giorno dopo la scomparsa dell’italiano, che era anche il quinto anniversario della rivolta di piazza Tahrir contro il presidente Hosni Mubarak. I due giornalisti che l’hanno firmato, Declan Walsh e Amina Ismail, scrivono che il governo del presidente Abdel Fattah al Sisi ha adottato – o si mostra indulgente verso – la tattica delle sparizioni forzate contro l’opposizione “vera o anche soltanto immaginata”: i sospetti sono portati per mesi in centri di detenzione non dichiarati, sottoposti a interrogatori e torture, non viene mossa loro alcuna accusa ufficiale, le famiglie non sono avvertite.
Le testimonianze in prima persona raccolte dai gruppi per i diritti umani parlano di scosse elettriche e percosse per fiaccare la resistenza. Alla fine del sequestro comincia spesso un percorso penale ufficiale, con accuse più o meno credibili di appartenenza alla Fratellanza musulmana o a un gruppo terrorista. Gli attivisti citati dal New York Times dicono che il sistema è peggiorato rispetto ai tempi di Mubarak, quando si riusciva a individuare la prigione dove era stato portato il sospetto nel giro di 24 ore e a parlare con lui in circa due settimane. Ci sono anche casi in cui gli scomparsi riappaiono soltanto dopo morti. Il ministero della Giustizia egiziano ha cominciato a investigare sulle sparizioni all’inizio di gennaio, ha detto che ci sono circa cento casi e la settimana precedente alla scomparsa del ricercatore italiano ha corretto la cifra a 130.
Non c’è alcun legame accertato tra questo sistema di repressione e la morte di Giulio Regeni. Per ora si sa soltanto che è sparito in una zona centrale del Cairo alla fine di una giornata in cui le misure di sorveglianza per prevenire ogni manifestazione erano al massimo. Oggi il Manifesto, per cui lo studente scriveva, pubblica la sua ultima corrispondenza dal Cairo. Sotto falso nome perché, come tanti, temeva le intimidazioni e le ritorsioni contro i giornalisti stranieri al Cairo.
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