Così Sánchez ha chiuso la sinistra spagnola in una gabbia di no
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Il leader socialista rifiuta l’invito di Rajoy e chiede una “coalizione progressista”. Lo scontento dei baroni
di Eugenio Cau | 08 Gennaio 2016 ore 13:24
Roma. Il leader del Partito socialista spagnolo (Psoe) Pedro Sánchez ieri durante una visita a Lisbona ha detto no alle offerte di grande coalizione avanzate dal Partito popolare (Pp) di Mariano Rajoy, e ha aperto a una “grande coalizione progressista” che potrebbe includere, benché non sia mai stato citato esplicitamente, il partito antisistema Podemos. “Lo ribadisco: dico no alla grande coalizione che propone il Pp”, ha detto Sánchez. “Ma se Mariano Rajoy non riesce a formare il governo, dico sì a una grande coalizione per un esecutivo progressista in Spagna”. Da quando è iniziato il negoziato per formare una coalizione dopo che le elezioni del 20 dicembre non hanno prodotto nessuna maggioranza nel Parlamento spagnolo, tutti i tentativi di raggiungere un accordo si sono schiantati contro i no del Partito socialista. Il più duro è arrivato martedì dopo che Rajoy, attualmente premier facente funzione, aveva proposto ai socialisti e a Ciudadanos, la formazione centrista di Albert Rivera, di formare un esecutivo di responsabilità per escludere dal governo gli antisistema di Podemos. “No è no ed è un no definitivo”, aveva risposto stizzito il portavoce dei socialisti Antonio Hernando, mettendo una pietra sui tentativi di formare un’alleanza tra le forze moderate per garantire stabilità al paese. Ma ieri il no di Sánchez è stato quasi ferale per le speranze di un governo moderato in Spagna, perché accompagnato da una apparente, ma non esplicita, apertura a Podemos, e perché pronunciato al fianco del premier socialista portoghese António Costa, un altro che, a forza di no, appena tre mesi fa si è aperto forzatamente la strada verso il governo. Dopo aver perso le elezioni ed essersi trovato sei punti dietro al centrodestra dell’ex premier Pedro Passos Coelho (la stessa distanza che oggi divide Pp e Psoe: 28 contro 22 per cento), in una situazione in cui nessun partito aveva la maggioranza Costa ha detto no alle offerte di grande coalizione di Passos Coelho per formare un governo anti austerity sostenuto dai partiti antisistema della sinistra estrema. Le dichiarazioni di Sánchez sembrano far pensare che il leader socialista miri allo stesso destino per la Spagna: una coalizione tutta a sinistra tra Psoe e Podemos, con il sostegno dell’ultrasinistra o di alcuni partitini locali, oppure con l’appoggio esterno di Ciudadanos. Un governo, insomma, da cui i moderati sono fatti fuori per far spazio alle estreme.
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In questi giorni di incontri, dichiarazioni, negoziati più o meno aperti, Sánchez si è comportato con la sicumera di chi pensa di essere il kingmaker del paese. Ha delle ragioni per farlo. Numeri alla mano, oggi in Spagna non è possibile formare governi di nessun colore, coalizioni né grandi né piccole, senza i voti dei socialisti. Ma con la sua proposta aperta di coalizione, Rajoy “ha addossato la responsabilità di decidere a Pedro Sánchez e Albert Rivera”, ha scritto Jorge Reverte, columnist del País. “Rivera aveva già fatto la medesima proposta, e non deve spiegare niente, ma Sánchez è obbligato da tutti a fornire le ragioni del suo no. Un no che, come è successo alla Cup con Mas, è già stato detto troppe volte per essere smentito”. Reverte paragona il Psoe alla Cup, il partitino maoista che ha tenuto in scacco per tre mesi il governatore della Catalogna Artur Mas, fino a costringerlo a nuove probabili elezioni. Non è un paragone azzardato, perché Sánchez, in questo periodo di scelte delicate e negoziati che richiedono flessibilità, finora ha dimostrato quasi soltanto intransigenza.
Sánchez si è recato a Lisbona per studiare il “modello portoghese”, per capire come abbia fatto Costa a ridurre a più miti consigli i partiti estremisti anti Europa, anti euro e anti Nato che oggi lo appoggiano nell’esecutivo. Ma le differenze tra i socialisti e Podemos sono paradossalmente molto più grandi, soprattutto per quanto riguarda la questione catalana. Fin dalla settimana scorsa Podemos ha imposto come condizione essenziale per iniziare qualsiasi negoziato un referendum sull’autodeterminazione della Catalogna, e anche se uno dei leader, Iñigo Errejón, proprio ieri ha smussato i toni sulla questione, ha ricevuto in risposta un no (l’ennesimo) da Sánchez, che sulla delicatissima questione dell’unità nazionale non può transigere. I grandi baroni socialisti locali, nell’ultima riunione del partito, lo hanno forzato a fare della Catalogna una linea rossa, si dice proprio per scongiurare la possibilità di un accordo con Podemos, che finirebbe per cannibalizzare la sinistra moderata.
Verso le elezioni in primavera
La grande coalizione progressista, dunque, sembra molto più probabile nelle dichiarazioni di Sánchez che nei fatti, e lo stesso leader socialista potrebbe perdere presto la sicumera da kingmaker. Solo l’eccezionalità del risultato elettorale, per ora, lo ha salvato dalle accuse di aver provocato il crollo del Psoe, e i pesi massimi del partito fremono aspettando il momento buono per chiedere le sue dimissioni. La settimana scorsa, all’ultima riunione interna, i baroni locali hanno chiesto di tenere un congresso prima ancora della fine dei negoziati per il governo, e alcuni hanno fatto intendere la loro sfiducia nei confronti di Sánchez dicendosi sicuri che il paese andrà a nuove elezioni, in cui prevedibilmente il candidato socialista non sarà più Sánchez – in pole c’è Susana Díaz, la potentissima governatrice dell’Andalusia.
Che ci saranno nuove elezioni ormai sembra essere convinto anche Rajoy, che, ha scritto ieri il País, sta preparando l’esecutivo temporaneo a una lunga traversata fino a primavera, sempre che i no di Sánchez non si mettano ancora di traverso.
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