Responsabilità del “metodo Prodi” sugli squilibri economici della Cina
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I peccati originali nei rapporti tra occidente e produzione cinese
di Sergio Soave | 08 Gennaio 2016 ore 11:06 Foglio
Il susseguirsi di brutte notizie sull’economia cinese, dalla svalutazione ai robusti ribassi in borsa, spinge a una riflessione sul modo assai affrettato con cui quindici anni fa si è deciso, su impulso della commissione europea presieduta da Romano Prodi, di far entrare precipitosamente Pechino nel Wto (dal quale restavano escluse economie importanti come quella russa). Non c’è dubbio che la Cina debba essere ammessa nel circuito commerciale mondiale, ma il ritmo dell’immissione delle merci cinesi sul mercato internazionale avrebbe potuto essere graduato in modo tale da accompagnare la crescita delle esportazioni a quella del mercato interno, in modo da evitare squilibri troppo forti delle bilance commerciali e per consentire ai settori produttivi europei più esposti, a cominciare dal tessile, una riconversione e un miglioramento tecnologico che li rendessero ancora competitivi. Che ci sia stato un danno per le economie europee è evidente.
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Quello che ora ci si può seriamente domandare è se ci sia stato un danno anche per l’economia cinese. Può sembrare paradossale porsi questa domanda se si guarda la serie statistica della crescita annua del pil cinese, che anche dopo il rallentamento dell’ultimo periodo resta più robusta di quella americana e più che tripla di quella europea. Però una crescita dovuta in modo così preponderante alle esportazioni ha determinato anche profondi squilibri. C’è stato un ampio afflusso di capitali, attirati dalla redditività e da una gestione della politica monetaria che tendeva a incoraggiarli, che ora sembra invece defluire in modo assai consistente e che la doppia svalutazione dello yuan non sembra in grado di trattenere. I corsi azionari sono stati drogati da prospettive di crescita che non tenevano conto dell’inevitabile rallentamento della crescita di produttività dopo l’introduzione del primo salto tecnologico, il che spiega almeno in parte i crolli in borsa che caratterizzano questa fase. Il mercato interno, anche a causa del monopolio del partito unico della rappresentanza sindacale, ha visto una crescita assai diseguale, con la creazione di una fascia ristretta di capitalisti e una crescita assai modesta dei redditi dei lavoratori dipendenti dell’industria nazionale (maggiore per quelli delle aziende a capitale anche straniero) e stagnante per la massa di lavoratori di un’agricoltura non ancora modernizzata.
D’altra parte la meccanizzazione dell’agricoltura, riducendo la necessità di lavoro umano, provocherebbe un’impennata colossale della disoccupazione, che l’industria, pur ancora in crescita, faticherebbe ad assorbire. E’ questa situazione contraddittoria a determinare una reazione così esagerata dei mercati ai primi sintomi di rallentamento produttivo. Conta anche il fatto che i dati economici cinesi, mai sottoposti a una verifica di agenzie indipendenti, suscitano perplessità e anche questa limitata attendibilità può provocare effetti di panico che le misure dirigistiche del governo, dalla sospensione degli scambi azionari alla lotta contro la “speculazione” ribassistica, non possono certamente bloccare.
I fattori che consigliarono di non condizionare il ritmo dell’ingresso nel mercato globale dei prodotti cinesi erano contraddittori già 15 anni fa: da una parte si sperava che la liberalizzazione del mercato avrebbe prodotto quasi automaticamente un equilibrio tra esportazioni e domanda interna, trascurando che un’economia a direzione statale può bloccare le dinamiche salariali in modo autoritario, dall’altra si pensava che proprio il controllo politico avrebbe evitato la creazione di bolle finanziarie di origine speculativa, dimenticando il legame che esiste tra l’establishment politico (anche se si definisce comunista) e i settori più aggressivi del capitalismo finanziario cinese. Ora i nodi non sciolti a suo tempo si aggrovigliano in una situazione globale resa complessa da altri fattori, il che dovrebbe consigliare di muoversi con cautela almeno nell’ultimo tratto del percorso, cioè nell’attribuzione alla Cina delle caratteristiche di società di mercato sulla quale si devono esprimere le autorità europee, che farebbero bene a non ripetere l’errore di 15 anni fa.
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