Oltre il caso Spagna. Fine del bipartitismo? Un viaggio nelle grandi coalizioni europee

Anche la Spagna entra dunque nell’epoca delle maggioranze difficili. Dal caso italiano alla Finlandia, come gli stati hanno cercato di superare lo stallo politico delle stabili maggioranze dovuta alla generale erosione del bipartitismo in Europa

di Maurizio Stefanini | 21 Dicembre 2015 ore 18:00 Foglio 

Il vantaggio del sistema costituzionale spagnolo è che se il Presidente del Gobierno designato dal re dopo le elezioni non ottiene la maggioranza assoluta del voto dei deputati, bisogna aspettare 48 ore e alla seconda votazione basta la maggioranza semplice. È già successo in passato: nel 1976, 1979, 1989, 1993, 1996, 2004, 2008; insomma, è più normale questa situazione che quella di un partito con la maggioranza assoluta. Ma in questi precedenti quel che mancava era comunque poco, e volta per volta la maggioranza per far passare le leggi poteva essere contrattata con i partiti regionali.  Il minimo era stato con la vittoria del Pp di Aznar nel 1993: 156 seggi, 20 in meno della fatidica quota di 176. Adesso invece il Pp è precipitato a 123, e anche con l’eventuale appoggio dei Ciudadanos di Albert Rivera resterebbe a quota 163. D’altra parte Psoe, Podemos e quel che resta di Izquierda Undida assieme, volendo imitare quel che è avvenuto nel vicino Portogallo, starebbero a 161.  In entrambi i casi, con i partiti regionalisti dovrebbe contrattare non un partito solo ma una coalizione instabile. Ragione per cui a questo punto è stata subito rilanciata l’idea di una qualche forma di Grande Coalizione. Pp più Psoe e magari Ciudadanos: anche se probabilmente non come partecipazione diretta di tutti al governo stile Grosse Koalition tedesca, ma piuttosto come ai tempi della non sfiducia italiana del 1976-79. I popolari fanno il governo; socialisti e forse anche i “cittadini” votano a favore, o magari si limitano ad astenersi. Quest’ultima ipotesi è la più gettonata.

Anche la Spagna entra dunque nell’epoca delle maggioranze difficili dovuta alla generale erosione del bipartitismo in Europa. Fa eccezione il Regno Unito: lì il bipartitismo era saltato nel 2010, ma  dopo cinque anni di una coalizione conservatori-liberali che non si vedeva dal 1932 è stato di nuovo imposto da Cameron lo scorso maggio. Fa eccezione anche la Francia, dove l’emersione del Front National è comunque in qualche modo contenuta dal doppio turno.

Di grandi coalizioni vere e proprie non è che ve ne siano in giro tante. Se la definizione indica un sistema dove i partiti di governo hanno una maggioranza parlamentare oltre i due terzi degli eletti, sostanzialmente solo la Germania, dove la formula Cdu-Csu-Spd ha 504 deputati su 631, e l’Austria, dove i 52 socialdemocratici e i 47 popolari fanno 139 deputati governativi su 183. Lì va però detto che non è stata la grande coalizione una risposta all’ascesa della Fpö, ma piuttosto l’ascesa della Fpö prima di Blocher e poi di Strache la risposta all’ostinata tradizione consociativa dei due partiti principali. Ci sarebbe anche l’Irlanda: 75 Fine Gael, 37 laburisti e 5 indipendenti fanno 117 deputati su 166. Ma il fatto è che i laburisti sono diventati secondo partito solo per il crollo improvviso del Fianna Fail, tradizionale primo partito che nel 2011 sull’onda della crisi è precipitato da 77 a 20 seggi. I laburisti erano un tradizionale partner del Fine Gael, per cui la formula non è percepita come una grande coalizione.

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Se una grande coalizione è quella che schiera assieme i primi due partiti, allora ci si possono mettere anche Paesi Bassi e Finlandia. Ma i Paesi Bassi sono un sistema estremamente frammentato, in cui messi assieme i 41 seggi del partito liberale di destra Vvd e i 38 laburisti fanno appena 79, su una maggioranza assoluta di 76. La formula olandese ha però di caratteristico delle grandi coalizioni il mettere assieme due partiti che dovrebbero in teoria stare agli antipodi, un destra-sinistra. Al contrario in Finlandia, Paese pure politicamente frastagliato, la coalizione tra i primi tre partiti fa una maggioranza un po’ più decisa di 124 deputati su 200: 49 centristi, 38 del partito euroscettico dei “Finlandesi” e 37 conservatori. Ma si tratta in effetti di una compatta coalizione di centro-destra. Di ben diversa composizione era il governo precedente, sconfitto il 19 aprile, che aveva messo assieme i conservatori con i socialdemocratici, i democristiani, i liberali del partito della minoranza svedese e quasi fino alla fine anche verdi e post-comunisti.

Di grande coalizione si può parlare anche in Svizzera, ma questo è un esempio che non fa testo: lì infatti i primi quattro partiti stanno sempre tutti assieme al governo. Il risultato delle ultime elezioni è che assieme ai 2 ministri socialdemocratici e ai 2 liberali ora anche la destra di Toni Brunner è passata da un ministro a 2, mentre i democristiani sono retrocessi da 2 a uno.

Quanto all’Italia, la fine della scorsa legislatura con l’Abc Alfano-Bersani-Casini e l’inizio di questa sono state effettivamente un’esperienza di governo allargato a più partiti, ma ha cessato di esserlo con lo scioglimento di Scelta Civica e la scissione dell’Ncd da Forza Italia.

Le difficoltà del bipartitismo sta comunque provocando un po’ dovunque maggioranze strane. In Portogallo, l’abbiamo detto, un’intesa tra le sinistre che si erano sempre detestate di socialisti, comunisti e Blocco di Sinistra. In Grecia la coalizione tra la sinistra radicale di Syriza e la destra euroscettica dei Greci Indipendenti. In Norvegia, Finlandia e Danimarca la scelta di conservatori e liberali di allearsi con la destra euroscettica e anti-immigrati: in Danimarca con appoggio esterno, ma in Norvegia e Finlandia dandole pure ministri. E in Lussemburgo sono liberali, socialisti e verdi che si sono messi d’accordo per togliere a Jean-Claude Juncker la carica di primo ministro dopo 18 anni: lui si è consolato facendo il Presidente della Commissione Europea.

Dopo decenni di grandi coalizioni per fronteggiare i separatisti, invece, il Belgio ha oggi un governo compattamente di centro-destra: 33 deputati del partito separatista fiammingo più 18 dc fiamminghi più 14 liberali fiamminghi più 20 liberali valloni (tra cui il premier Charles Michel): 85 su 150. Anche lì c’è però qualcosa di: strano è la spaccatura tra i due partiti democristiani, al governo il fiammingo e all’opposizione il vallone.

Categoria Estero

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