Libia, le difficoltà del piano di pace a guida italiana

Contingente di 5 mila caschi blu italiani. Il comandante Paolo Serra al comando. Per difendere i palazzi del potere dall'Isis. Ma i libici non vogliono stranieri.

I rappresentanti delle diverse fazioni libiche alla firma dell'intesa in Marocco (Getty)

di Barbara Ciolli | 20 Dicembre 2015 lettera43

Forze speciali Usa atterrate in Libia a dicembre e altre francesi, inglesi, italiane in arrivo.

Una risoluzione da approvare in Consiglio di sicurezza Onu per decretare il nuovo governo di unità come l'unico internazionalmente riconosciuto e un'altra, imminente, per la missione di peace-keeping e anti-Isis.

I documenti, ancora secretati, prevedrebbero un contingente a terra di almeno 5 mila unità a guida italiana, da affiancare alla missione navale anti-scafisti comandata da Roma da luglio 2015: il progetto da tempo nel cassetto e anticipato con impazienza dai ministri della Difesa Roberta Pinotti e degli Esteri Paolo Gentiloni.

CASCHI BLU ITALIANI. I caschi blu dell’Onu servirebbero, come in Libano, a riportare ordine e a far operare in sicurezza le istituzioni di Tripoli.

Gli inglesi (nel Consiglio di sicurezza con potere di veto) che scrivono le risoluzioni con gli italiani, sarebbero pronti ad aggiungere 1.000 uomini, c’è da scommettere nell’Est della Cirenaica dove hanno maggiori interessi.

Si starebbe valutando anche un contingente di italiani alla frontiera con la Tunisia, vicino alla città degli scavi archeologici di Sabratha, gravemente infiltrata dall’Isis, e ai campi d’addestramento dai quali parte il corridoio di jihadisti tra la Libia e la Tunisia.

A CAPO IL GENERALE SERRA. Capo in pectore della missione Onu in Libia è l’ex comandante della missione Unifil in Libano Paolo Serra, senior advisor del neo inviato speciale in Libia delle Nazioni unite, il tedesco Martin Kobler che ha impresso una brusca accelerata ai negoziati.

Serra lavorerebbe gomito a gomito con l’ammiraglio Enrico Credentino alla guida della missione Ue nel Mediterraneo, che potrebbe presto entrare anche nelle acque libiche.

Questo almeno è quanto hanno in testa gli occidentali sull'ex jamahiriya di Gheddafi, ma il condizionale è d’obbligo.

Nessuno dei governi libici vuole interventi stranieri nel territorio nazionale

Il presidente del Congresso di Tripoli Nuri Abusahmain ha proseguito i lavori durante la firma dell'accordo dell'Onu: non riconosce il nuovo governo nazionale.

Intanto i libici non vogliono militari stranieri, neanche il nuovo governo nato dall’accordo del 17 dicembre in Marocco.

Non li vogliono i capi islamisti al potere a Tripoli, tanto poco intenzionati a lasciare i palazzi governativi assaltati un anno e mezzo fa da proseguire la seduta in un semivuoto Congresso nazionale (cioè il parlamento) mentre veniva fimata l'intesa.

Non li vuole il generale Khalifa Haftar che da Tobruk comanda il parlamentino in esilio.

E neppure il neo premier di unità nazionale Faiz Serraj (tripolino ma del governo uscente di Tobruk): su questo tutte le fazioni della guerra civile libica sono d’accordo.

MANOVRE PARALLELE. Nuri Abusahmain, presidente del parlamento di Tripoli, e Agila Hissa, suo omologo di Tobruk, si sono incontrati all’ultimo momento a Malta, per bloccare il governo della “corcordia”.

Altri rami dei due parlamenti hanno tentato in extremis un accordo parallelo a quello dell'Onu, «senza intermediari» stranieri. «Dubito che il nuovo governo, già accusato di essere il frutto di pressioni esterne, vorrà truppe straniere a difenderlo», spiega a Lettera43.it Mattia Toaldo, esperto di Libia dell’European council of foreign relations e membro del Council of the Society for Libyan Studies.

Ai diplomatici dell'Onu manca poi l’appoggio di diverse milizie ed è verosimile che entrambi i governi e i parlamenti (ufficialmente decaduti) continuino a legiferare e amministrare: a Tripoli può esplodere un'altra guerra contro l’insediamento del nuovo governo.

LA GUERRA DI TRIPOLI. Serraj dovrebbe nominare anche i vertici del fondo sovrano Lia (Libyan authority investment) e della Banca centrale, materia di contesa, con il petrolio, dalla fine del regime nel 2011.

Tra il 2013 e il 2014 sia Haftar sia Abusahmain hanno sferrato attacchi al parlamento attraverso i blocchi opposte di milizie, e se ora l’ex generale gheddafiano sarebbe critico con gli occidentali ma collaborativo, l’opposizione più dura verrebbe da Abusahmain.

La sua batteria di milizie (Camera operativa dei rivoluzionari libici) ha prima tentato il colpo di Stato nel 2013, rapendo l’allora primo ministro Ali Zeidan.

Poi ha scatenato attacchi ai palazzi del potere, incrociati con quelli di Haftar, fino alla fuga nell’Est del governo uscito dalle ultime Legislative.

La missione: addestrare l'esercito e proteggere il governo dall'Isis

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Abushmain, ricco e potente commerciante berbero di Zuara, è rimasto invece a presiedere il Congresso nazionale, una carica che in Libia equivale a quella di capo dello Stato.

Il primo capo di Stato berbero è accusato di aver iniettato quasi un miliardo di dollari nelle milizie islamiste della capitale e con Misurata fa parte della coalizione Alba libica, per quanto crescano le divisioni. Serra dovrà vedersela soprattutto con lui.

Torinese, classe 1956, il generale sa come muoversi, ha guidato missioni in Kosovo, Afghanistan e Libano e sta incontrando diverse milizie, dialogando soprattutto con Misurata.

RICOSTRUIRE L'ESERCITO. «La sicurezza di Tripoli dipenderà dal negoziato che sta conducendo Serra e sarà un accordo politico tra i gruppi armati esistenti», conferma Toaldo. Ma l’accordo ancora non c’è.

Senza un presidio militare di ministeri, parlamento, tribunali e anche istituzioni bancarie, per il governo d'unità sarà impossibile operare. Nessun gruppo libico però vuole soldati stranieri.

Il massimo che l’esecutivo di Serraj si dice per ora disposto ad accettare sono istruttori militari per ricostituire l'esercito nazionale.

C’è da disarmare le milizie - compito impossibile per i debolissimi governi, poiché erano le milizie della guerra a controllare porzioni di parlamento -, mettere in sicurezza le armi, assorbire parte degli irregolari nelle forze regolari, proteggere le istituzioni anche dagli attacchi dell’Isis e di altri gruppi jihadisti che nessuna milizia, neanche a Tripoli, è in grado di fermare.

DIFFICILE STABILIZZAZIONE. Da soli i libici non possono farcela, ma la stabilizzazione è un compito molto rischioso per gli italiani.

A Tripoli, campo di battaglia delle milizie e con cellule dell’Isis infiltrate da Derna e Sirte, e anche sulla frontiera occidentale con la Tunisia.

Stretti in triangolo di un centinaio di chilometri quadrati, dove da mesi si rincorrono rumor su unità speciali di italiani già in azione, ci sono l’impianto cogestito dall’Eni di Mellitah, i trafficanti di uomini di Zuara, i campi per mujaheddin e il corridoio dell’Isis.

Da lì sono passati i terroristi del Bardo e Sousse e lì a luglio si sono perse le tracce dei quattro tecnici italiani di Mellitah rapiti in Libia.

Categoria Estero

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