Paradosso Libia, l’accordo di pace rischia di scatenare l’inferno

I due governi a un passo dalla firma, ma a Tripoli non tutti sono d’accordo. L’effetto domino potrebbe diventare esplosivo. E lo Stato Islamico è pronto ad approfittarne

Libia

di Tommaso Canetta linkiesta 16.12.2015

Sono passati quasi 16 mesi dall'ultima volta che la Libia ha avuto un solo Parlamento e un solo governo. Da quando, nell'agosto 2014, le milizie islamiste hanno instaurato un'assemblea legislativa – non riconosciuta dalla comunità internazionale – a Tripoli, in contrapposizione a quella legittima rifugiatasi a Tobruk. Da allora la guerra civile ha sconvolto il Paese, sprofondandolo in uno stato di anarchia in cui milizie, gruppi armati e criminalità controllano spicchi più o meno consistenti di territorio.

Anche lo Stato Islamico ne ha approfittato, con l'appoggio di gruppi locali, per mettere radici prima a Derna e poi a Sirte. Ora - grazie agli sforzi degli inviati Onu, lo spagnolo Bernardino Leon prima e il tedesco Martin Kobler poi, e grazie al successo della Conferenza internazionale sulla Libia tenutasi a Roma (link 4) - l'intesa per un governo di unità nazionale sembra essere vicina. I rappresentanti dei due Parlamenti si incontrano il 16 dicembre a Skhirat in Marocco per la firma dell'accordo, che dovrebbe arrivare il 17. Subito dopo, con l'assenso anche di Russia e Cina, il Consiglio di sicurezza dell'Onu dovrebbe autorizzare una missione internazionale umanitaria per la sicurezza e la stabilizzazione del Paese.

«Per capire se l'accordo che dovrebbe essere siglato il 17 potrà reggere in futuro sarà fondamentale vedere chi si recherà in Marocco per la firma», spiega Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Affairs. «Dal Tobruk ci si aspetta una consistente delegazione, hanno sottoscritto un documento a favore dell'intesa 90 deputati sui circa 120-130 che effettivamente partecipano all'assemblea legislativa. Diversa la situazione dell'altro parlamento: non solo il suo Presidente Nuri Busahmein - la più importante autorità politica a Tripoli - si è dichiarato fortemente contrario, ma il “no” all'accordo è stato anche appoggiato dalle firme di 80 deputati (sempre su circa 120 effettivi).

Dunque ci troviamo di fronte a un bivio. Se in Marocco la delegazione di Tripoli sarà molto consistente – non solo a livello di parlamentari, ma anche di capi tribù e sindaci – allora Busahmein sarà messo in minoranza e probabilmente costretto a lasciare il potere, e la città, al nuovo governo. Se invece l'accordo poggiasse solo su pochi elementi tripolitani, l'attuale parlamento della capitale potrebbe pretendere di restare in carica, e rischieremmo di avere un governo riconosciuto dalla comunità internazionale che però non può operare da Tripoli (dove peraltro risiedono i ministeri).

Questo scenario è molto scivoloso, perché aprirebbe alla possibilità per il nuovo governo legittimo di chiedere all'Occidente di intervenire anche militarmente per aiutarlo a prendere il controllo della capitale. E se anche l'Occidente non intervenisse direttamente, le milizie che sostengono l'accordo potrebbero – legittimamente, da un punto di vista della legalità internazionale – scatenare una battaglia per sottrarre Tripoli alle milizie islamiche che appoggiano l'attuale parlamento. Il paradosso è quindi che con questo accordo di pace si rischia di scatenare un'esplosione di violenza in Libia come non si vedeva da anni».

Se gli scontri dovessero nuovamente dilagare nel Paese, si rischierebbe anche di compromettere la concordia della comunità internazionale che ha reso possibile l'accelerazione negoziale degli ultimi giorni. Finora infatti uno dei maggiori ostacoli alla soluzione della crisi in Libia - che solo di recente, alla Conferenza internazionale di Roma, è stato superato - era lo scontro di interessi tra potenze regionali, Turchia e Qatar a sostegno di Tripoli, e l'Egitto e gli Emirati Arabi Uniti a sostegno di Tobruk. «Gli Stati dell'area sembrano aver accettato la mediazione internazionale, incluso il Qatar, che pure aveva minato il negoziato Onu conducendone uno parallelo», prosegue Toaldo.

«L'Egitto in particolare, da quando il nome del generale Haftar (capo delle forze armate di Tobruk e alleato di ferro del Cairo) è uscito dalle trattative – non è chiaro se per non bruciarlo, o se per poterlo far cadere solo dopo aver insediato un forte governo internazionalmente riconosciuto -, è sembrato favorevole all'accordo. Ma se, come si diceva, l'intesa siglata in Marocco fosse debole, le milizie che sostengono il parlamento Tripoli e la sua classe politica rifiutassero di lasciare il posto al nuovo governo legittimo, e si infiammasse uno scontro militare per la conquista della capitale, a quel punto non si potrebbe escludere che l'Egitto intervenga. E se intervenisse il Cairo anche Ankara e Doha potrebbero riprendere l'ingerenza, sostenendo le fazioni islamiste».

Nel caos che ne seguirebbe si avvantaggerebbe ovviamente anche lo Stato Islamico, la cui presenza in Libia è pure stato uno dei maggiori motivi per cui si è avuta la recente svolta nei negoziati. «Le recenti notizie sull'ampliamento del controllo dello Stato Islamico nel Paese – ora pericolosamente vicino agli impianti petroliferi dell'area di Sirte – hanno creato, unite al bisogno di agire esploso a seguito degli attentati di Parigi, un'attenzione senza precedenti», dice ancora Toaldo. «La Francia, che finora sulla Libia era stata fredda, ne ha fatto una sua priorità (sposando così la linea che l'Italia sta portando avanti da quasi due anni). Anche gli Usa, che pure a livello di interesse nazionale sono poco coinvolti in Libia, hanno messo il loro peso diplomatico sul piatto: nella Conferenza di Roma il segretario di Stato John Kerry, insieme al ministro degli Esteri italiano Gentiloni, ha avuto un ruolo di primaria importanza, assicurando il sostegno americano alla soluzione negoziale e promettendo ritorsioni contro chi tentasse poi di sabotare l'accordo».

Ma se un fallimento della trattativa – nel caso in cui la fazione di Tripoli che vuole l'intesa risultasse minoritaria – rischia di scatenare una guerra di cui lo Stato Islamico si avvantaggerebbe, anche un suo successo rischia di non essere sufficiente per garantire la rapida estirpazione del Califfato dalla Libia. «L'ipotesi di un intervento militare occidentale sotto egida Onu con “scarponi a terra” per ora non è più sul tavolo», sostiene Toaldo e conclude: «In base a quanto si sa per ora, al massimo ci saranno azioni di anti-terrorismo, con bombardamenti mirati da parte di Usa, Uk e Francia, e azioni delle forze speciali. L'Italia poi, qualora l'accordo raggiunto in Marocco reggesse, potrebbe inviare istruttori militari per addestrare il nuovo esercito libico, ma niente di più». La presenza dell'Isis in Libia non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella in Siria e Iraq, dove quasi due anni di bombardamenti occidentali (senza truppe a terra) hanno prodotto scarsi risultati. La speranza è quindi che a sradicare gli uomini del Califfo al Baghdadi dal Paese basti un ridotto impegno bellico dell'Occidente e soprattutto una ritrovata coesione tra i vari attori libici. Dopo il 17 dicembre sapremo se un primo passo in questa direzione è stato fatto.

Categoria Estero

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