Il disastro politico di Obama
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Il bel racconto americano che ci avevano promesso è fallito, finito con un accordo prenucleare con l’Iran, l’inazione occidentale, la ritirata da posizioni strategiche e una gara con il Papa a chi la spara più grossa
di Giuliano Ferrara | 11 Dicembre 2015 ore 06:18
Il disastro politico chiamato Obama, in relazione alla capacità di controllo che il mondo libero ha su di sé e sulla sua sicurezza strategica, non può più essere negato da alcun argomento in contrario. Stiamo qui a baloccarci con la scemenza secondo la quale tutti i mali hanno origine nella guerra irachena, e va notato che questa è la tesi del pagliaccio Trump, sicuro anche lui come i liberal che staremmo meglio se Saddam fosse ancora al potere (Trump è come i suoi falsi nemici ideologici, un isolazionista e un difensivista); intanto il Pentagono, a partire dal settembre scorso, ha chiesto di istruire la pratica di una nuova catena di basi militari in Africa, nel sud-est asiatico, nel medio oriente, e secondo quanto riferiva ieri il New York Times, anche nell’Europa meridionale. Oggetto: l’espansione califfale a macchia d’olio, il fenomeno del franchising per cui sempre nuovi gruppi in nuove aree si richiamano allo Stato islamico e collaborano attivamente con esso su diversi fronti in una metastasi complicata, di forma varia, ma in minaccioso avanzamento. L’audizione del segretario alla Difesa Ashton Carter al Congresso è stata una penosa esibizione di verità (siamo in stato di guerra) e di negazione (non c’è bisogno di farla in proprio). Alla Camera dei rappresentanti non si muovono le mozioni favorevoli a una presa d’atto della situazione di guerra, per la riluttanza repubblicana a conferire nuova autorità a un presidente incapace e per la ferita psicologica dei democratici risalente al voto favorevole alla guerra in Iraq. L’opinione menefreghista sventolata dai polls svetta su tutti i cieli. E mentre la dimensione califfale, potenzialmente e statutariamente universale, fa progressi, mentre si parla apertamente di un insediamento al massimo livello a Sirte, in Libia (il riferimento all’Europa meridionale del Pentagono ha qualche cosa a che vedere con l’Italia?), mentre noi ci apprestiamo a irrobustire con la levata delle sanzioni la proxy-war delle milizie sciite e dei loro alleati sul campo, mentre i russi ci danno la biada prendendo essi l’iniziativa dispiegata e per la prima volta sequestrando per i loro tiri missilistici le acque del Mediterraneo, il presidente Obama cerca di rassicurare gli americani sconvolti dalla strage di San Bernardino, e l’Europa travolta dai massacri di Parigi, con un discorso brodoso in cui l’unica cosa chiara è che l’impegno politico-militare americano non sarà diretto, non sarà sul campo, non sarà risolutivo.
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Intanto Blair si scusa per l’Iraq con argomenti pusilli e capziosi, il Vaticano svuotato di folla fa di San Pietro un giocoso maxischermo per una pantomima animalista e naturalista che lo inchioda al peggio delle ideologie contemporanee, la decristianizzazione arriva come messaggio dalla Gran Bretagna multiculturale, il Qatar si compra le nostre università pagando le prime rate eccetera. Grande è il disordine sotto il cielo, come diceva il presidente Mao, ma non è sicuro che si possa concluderne con lui che, “dunque, la situazione è eccellente”. Ma come è stato possibile il disastro di Obama? Non avevamo pensato che il suo fosse un bel racconto americano? Non avevamo segnalato per primi, proprio qui, che quello ritratto da Stefano Pistolini sarebbe stato per vocazione e destino di quel grande paese “the next president of the United States”? Non avevamo considerato prezioso il suo discorso sulla fede cristiana, sulla responsabilità dei maschi neri in relazione alle loro famiglie di orfani e vedove di questa strana civiltà della dissociazione e del Self? Non ci era sembrato eccellente come retore, come simbolo, come leggenda mondiale, come icona e anche come intellettuale forbito, istruito, allenato alla cooperazione e alla delega in una macchina decisionale pur sempre senza rivali nel mondo? E chi avrebbe mai puntato sul numero che poi è tragicamente uscito? Il numero fatale di un accordo prenucleare con gli ayatollah, una lunga devastante guerra in Siria nell’inazione occidentale, la nascita di un embrione di Stato islamico a furia di battaglie campali, decapitazioni rituali, persecuzioni di minoranze religiose, conquiste e distruzioni di vestigia del passato romano-cristiano della civiltà universale, il tutto nel bel mezzo di una ritirata non strategica da posizioni di responsabilità e di attiva custodia dell’equilibrio ordinata dal presidente cool? Chi avrebbe mai pensato che la partita ideologica sarebbe finita con una gara emulativa a chi la spara più grossa fra il presidente delle nozze gay e dell’eugenetica e il Papa che connette misericordia e teologia del popolo e sostenibilità ambientale in un pasticcio di allarmante sapore secolaristico?
I fatti dicono purtroppo che l’ideologia ha i suoi costi, e che sono costi alti, imprevedibilmente alti. Specie in un’epoca di alta mobilità e comunicazione veloce, se al realismo sostituisci il “sogno” come programma, e se al sentimento tragico della vita preferisci la tenera futilità del pensiero medio comune, questo è poi quello che succede. Avete visto che Zuckerberg finanzia Marco Rubio. Ecco: siamo nelle mani di Facebook. (In che mani siamo).