Petrolio, come funziona il mercato nero
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Ogni giorno viaggiano su canali paralleli 1,5 milioni di barili. Venduti dai trader, grazie ai pochi controlli. Nigeria e Libia i Paesi più attivi. L'Isis? Vale solo il 2%.
di Francesco Pacifico | 23 Novembre 2015 lettera43
(© Ansa) L'Isis vende il petrolio a una media di 20 dollari al barile.
Con i loro 40 mila barili prodotti al giorno, e i 2 miliardi incassati all'anno, gli sceicchi dell'Isis paiono in questo campo dei dilettanti.
Perché giornalmente, sul mercato parellelo del petrolio, gira un mare di greggio che non viene quotato sui due listini principali (il Wti a New York e il Brent a Londra) e che secondo le stime più prudenti sfiora il milione e mezzo di barili.
Tutto attraverso operazioni dove il confine tra il contrabbando e il business indipendente è sempre più labile.
I TRADER BYPASSANO I CONTROLLI. Il fenomeno è più grande e più consolidato di quanto si possa immaginare. Ed è sorto molto prima dell'Isis, che alla luce di questi numeri mette in circolo solo il 2,6% del greggio 'illegale'. Basti pensare che negli anni si è anche creato un sistema - molto opaco ça va sans dire - di banchieri, trader, armatori e raffinatori, che finisce per bypassare le autorità di controllo ed è poco tollerato dai produttori ufficiali.
Non è un caso che, bombardando le posizioni degli islamisti in Siria, americani e russi ne abbiano approfittato per colpire il sistema logistico (pipeline come camion) con il quale l'Isis porta petrolio e gas dall'Iraq verso la Turchia.
I PRIMI CASI NEGLI ANNI 70. Oggi i miliziani del Daesh vendono in media un barile di greggio a 20 dollari, quindi meno della metà rispetto la quotazione ufficiale. E hanno un forte riscontro nonostante la domanda di carburanti sia molto più bassa rispetto all'offerta.
Ma il commercio parallelo di petrolio si è sviluppato tra Londra e Amsterdam negli Anni 70 invece con la crisi petrolifera. Allora trader più spregiudicati degli altri si erano resi conto che i Paesi fuori dell'Opec soffrivano lo strapotere degli arabi nel fare prezzo e (soprattutto nel mare del Nord o in Africa) non facevano troppe domande se il loro oro nero veniva commercializzato attraverso canali paralleli. Le cose, nel tempo, sono via via peggiorate.
Gli ayatollah e il mercato parallelo per aggirare l'embargo
Dopo la Guerra del Golfo la risoluzione Oil-for-food dell'Onu imponeva all'Iraq di produrre petrolio per un incasso annuo non superiore agli 1,6 miliardi di dollari.
Soldi da usare soltanto per comprare cibo e medicine e per contribuire alla ricostruzione postbellica.
BUSINESS IN IRAQ E IRAN. Baghdad prima del conflitto produceva più del triplo e Saddam non si fece mai scrupolo di vendere quel petrolio in surplus attraverso canali paralleli. Dagli anni successivi alla sua caduta, e ben prima del sorgere dell'Isis, vengono rubati circa 300 mila barili all'anno.
Come l'ex raìs anche gli ayatollah iraniani si sono affidati a un business simile, per aggirare gli effetti dell'embargo. Ma Teheran, che non hai mai smesso di pompare verso il picco dei 2,5 milioni di barili, ha iniziato a guadagnarci soprattutto negli ultimi anni, quando ha cominciato a rifornire un altro Paese soggetto a restrizioni internazionali: il suo storico alleato, la Siria.
Pare che Assad pagasse agli ayatollah anche tra i 15 e i 20 dollari in più al barile.
NIGERIA IN ASCESA. Ora che l'Iran ha fatto un passo indietro sulla costruzione dell'atomica, e reclama maggiore peso nel club dei produttori, la Nigeria punta a conquistare la leadership del mercato parallelo.
Nella nazione africana, Paese saldamente nell'Opec, politici corrotti e signori della guerra hanno messo in piedi con trader e armatori un commercio di petrolio che sostanzialmente viene sostenuto con furti agli oleodotti delle grandi compagnie stranieri.
Il governo ha calcolato che dalle pipeline si 'perdono' ufficialmente 500 mila barili all'anno, in gran parte marchiati come provenienti dal Ghana.
ORA TOCCA ANCHE ALLA LIBIA. In teoria basterebbe meglio sorvegliare gli impianti, in pratica nessuno (gli stessi governi e la major) prendono provvedimenti concreti contro le razzie.
Anche perché vorrebbe dire mettere a rischio gli equilibri tra le varie etnie presenti sul territorio e un'economia illegale dalla quale traggono sostentamento milioni di persone.
L'ultimo Paese, in ordine di tempo, a lanciarsi sul mercato parallelo del petrolio è stata la Libia, perlomeno quella guidata dal governo di Tripoli e da Abdullah al-Thinni. Il quale, oltre a creare istituzioni proprie parallale a quelle che fanno capo al parlamento di Tobruk, ha anche fondato una sua compagnia di bandiera, che - siccome la confusione era poca - si chiama anch'essa National Oil Corporation (Noc).
Per la cronaca gli Stati Uniti premono perché la comunità finanziaria non faccia affari con questa compagnia. Ma al momento si registrerebbe già la fila davanti agli uffici degli uomini di al-Thinni per comprare petrolio a prezzi ancora più stracciati.
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