Stato della (dis)unione. Tra Brexit e migranti, l’Ue non si sente tanto bene.
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Merkel è sotto l’attacco dei suoi, la tentazione anti austerità sale, e pure quella secessionista. E poi tanto antieuropeismo
di Redazione | 11 Novembre 2015 ore 10:30 Foglio
Chi organizza il putsch anti Merkel?
“Alternativlos”, senza alternativa, è una delle parole chiave del vocabolario di Angela Merkel. E “alternativlos” pareva fino a ora all’Unione (l’alleanza di cristianodemocratici e cristiano sociali, Cdu e Csu) anche la Merkel nella veste di Kanzlerin. L’enorme flusso di profughi arrivati in Germania – ne entrano diecimila al giorno – ha spinto però qualcuno a mettere in dubbio l’ineluttabilità di Merkel a capo del governo federale. Come scrivono i giornali tedeschi, nell’Unione si respira aria di rivolta, anzi di putsch. I capofila dei ribelli sono Horst Seehofer, leader della Csu nonché governatore bavarese, e il ministro dell’Interno, il cristianodemocratico Thomas de Maizière, un tempo capo del gabinetto Merkel. A loro si è aggiunto anche il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, l’eminenza grigia come lo chiama il settimanale Spiegel. Il motivo ufficiale del contendere è la politica dell’accoglienza dei profughi adottata dalla Merkel: secondo i suoi oppositori, è necessario limitare il diritto di congiungimento familiare. Ce n’è anche uno ufficioso che riguarda le cinque elezioni regionali in programma l’anno prossimo. Tre di queste si terranno già in primavera, nel Rheinland Pfalz, nel Baden-Württemberg e nel Sachsen-Anhalt. Solo in quest’ultima regione la Cdu è al governo con i socialdemocratici. In Baviera si voterà invece nell’autunno del 2018, ma Seehofer, così come il nocciolo duro dei conservatori della Cdu, è preoccupato per il rafforzarsi di movimenti e partiti a destra dell’Unione: l’Afd (l’Alternativa per la Germania) e Pegida, il movimento nato a Dresda dei cosiddetti “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente” che nel frattempo ha anche filiazioni in altre città, tra queste Monaco. Nonostante il clima teso nell’Unione, i contrasti sempre più aperti, è difficile che si arrivi a uno show down, alla detronizzazione di Merkel. Gli elettori non gradirebbero: Merkel nonostante leggere flessioni nei sondaggi continua ad avere la maggioranza dei tedeschi con sé. E se veramente i ribelli di Csu e Cdu dovessero osare il grande gesto, il putsch, a guadagnarci, su questo i politologi concordano, sarebbero i socialdemocratici. Non a caso l’Spd in questo momento se ne sta il più possibile in disparte.
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Molto più dell’austerità imposta dalla Germania per rispondere alla crisi della zona euro, l’ondata dei rifugiati che sta travolgendo l’Europa ha fomentato una rivolta contro la cancelliera Angela Merkel, mettendo a dura prova le capacità di resistenza di tutta l’Ue. Durante un Vertice europeo straordinario dei capi di stato e di governo domani alla Valletta, diversi leader intendono contestare apertamente la politica della porta aperta ai siriani di Merkel. Ieri il premier italiano Matteo Renzi e il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker hanno avuto un colloquio telefonico in preparazione al vertice; lunedì, in un discorso a Berlino, il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha anticipato ciò che aspetta la cancelliera a Malta. “La sopravvivenza dell’Europa come continente di libertà, stato di diritto, rispetto degli individui, della sicurezza dei suoi cittadini dipenderà soprattutto dalla Germania”, ha spiegato Tusk, chiedendo a Merkel di “modificare” la sua politica sui rifugiati, perché la libera circolazione di Schengen è a rischio: “Non prendiamoci in giro. La caduta del muro di Berlino non ha automaticamente abolito la necessità delle frontiere”. Frontex ha certificato che la frontiera esterna dell’Ue è un colabrodo: da gennaio a ottobre, 540 mila migranti sono sbarcati sulle isole della Grecia, per poi imboccare la rotta dei Balcani per raggiungere la Germania. Il polacco Tusk dà voce alle preoccupazioni dei paesi dell’est, che alzano muri e filo spinato. L’annuncio della Slovenia di voler costruire una barriera tecnica al confine con la Croazia è un segnale dell’orbanizzazione dei governi europei. Ma la contestazione anti Merkel ha contagiato anche vecchi stati membri. Il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, ha accusato la cancelliera di “ipocrisia” perché dice di voler accogliere i profughi siriani, salvo implorare il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, di tenerseli. “Se la Germania non farà marcia indietro, chiudendo le porte ai rifugiati, l’Ue per come l’abbiamo conosciuta potrebbe essere finita”, avverte un alto diplomatico europeo.
Nuova ondata di populismo anti Bruxelles
I partiti populisti anti europei di destra e sinistra, che appena cinque anni fa rappresentavano una sparuta armata folcloristica dentro l’Europarlamento, oggi sono diventati una presenza familiare e ingombrante del panorama dell’Ue. Al governo in Finlandia o in Grecia, finora hanno fatto danni soprattutto ai loro paesi: il governo di Helsinki è costantemente in bilico, mentre Alexis Tsipras è stato costretto a rinnegarsi pur di scampare alla Grexit. Alcuni studiosi ritengono che il “clivage” politico in Europa non sia più quello tradizionale tra destra e sinistra – del resto popolari e socialisti governano in grande coalizione a Bruxelles – ma tra europeisti e anti Ue. La crisi dei rifugiati rischia di accentuare questa tendenza, nel momento in cui la risposta europea della Commissione non riesce a stare dietro all’emergenza, mentre le soluzioni nazionali alla Viktor Orbán permettono all’Ungheria di proteggersi dietro muri e filo spinato. La Croazia domenica ha svoltato a destra, nonostante la gestione attenta dei migranti da parte del premier socialista Zoran Milanoviç. Tra pochi giorni la Polonia avrà un governo ultranazionalista. I socialisti in Portogallo vogliono condurre un esperimento anti austerità in stile Syriza. I meccanismi istituzionali hanno permesso all’Ue di rimanere immune dall’ondata del populismo anti europeo. Ma due paesi rischiano di portare il sistema alla rottura nel 2017: Regno Unito e Francia. Le centinaia di migliaia di migranti in marcia nei Balcani danno fiato ai sostenitori della Brexit e alimentano il consenso per Marine Le Pen in vista delle presidenziali francesi.
La tentazione antiausterità in Portogallo
La zona euro rischia di ritrovarsi con una nuova Grecia, dopo che in Portogallo un’alleanza anti austerità tra il Partito socialista e la sinistra populista ieri è riuscita a sloggiare la coalizione conservatrice uscita vincitrice alle elezioni di ottobre. La mozione di sfiducia contro il governo di minoranza guidato dal premier Pedro Passos Coelho è passata con i voti dei socialisti, del Blocco di Sinistra (un movimento gemellato con Syriza) e del Partito comunista (che vuole l’uscita dall’Unione europea e dalla Nato). Ora tocca al presidente Aníbal Cavaco Silva decidere se affidare l’incarico al leader del Partito socialista, Antonio Costa, oppure lasciare Passos Coelho per gli affari correnti fino al prossimo giugno, prima data utile per elezioni anticipate. Cavaco Silva ha espresso la sua contrarietà all’esperimento stile Syriza che Costa vuole imporre. Ma, secondo gli analisti, la durata del “semestre bianco” (l’impossibilità di andare a elezioni con un presidente a fine mandato) costringerà Cavaco Silva ad affidare le redini del Portogallo a Costa. La scommessa socialista potrebbe trasformare la success story del Portogallo in un incubo europeo. I rendimenti sui titoli di stato sono saliti oltre il 2,8 per cento, al massimo da cinque mesi. L’accordo concluso tra Costa e la sinistra populista prevede aumenti alle pensioni e al salario minimo, il ritorno agli stipendi del 2011 per i dipendenti pubblici, la reintroduzione di quattro giorni di festa e uno stop alle privatizzazioni delle società di trasporto. Costa promette di rispettare il 3 per cento di deficit, ma il Blocco di Sinistra ha già detto che la costituzione portoghese prevale sulle regole europee. La ministra delle Finanze uscente, Maria Luis Albuquerque, ha ricordato i pericoli: “Se il Portogallo sarà costretto a richiedere un altro programma di assistenza, i sacrifici che dovremo affrontare saranno più duri di quelli di prima. Basta guardare alla recente esperienza della Grecia e al costo del loro tentativo di porre fine all’austerità: più recessione, più povertà, più disoccupazione e più dipendenza dai creditori europei e del Fondo monetario internazionale”.
Un altro ultimatum alla Grecia
I creditori internazionali della Grecia iniziano a chiedersi se Tsipras 2.0 sia solo un aggiornamento mal riuscito di Tsipras 1.0. In un Eurogruppo lunedì, i ministri delle Finanze della zona euro sono stati costretti a inviare nuovamente un ultimatum al governo di Atene, dopo che il governo di Alexis Tsipras aveva rifiutato di cedere alle richieste dei partner europei sulla confisca e la messa all’asta delle case dei proprietari che non pagano il mutuo e sul programma che permette ai greci di pagare gli arretrati al fisco in 100 rate. La disputa potrebbe risolversi già questa settimana: il premier greco ha detto ieri al suo governo che chiudere i negoziati è una “priorità” per “facilitare l’approvazione” da parte dell’Eurogruppo del prossimo esborso di 2 miliardi di aiuti. In realtà la posta in gioco è ben più alta: senza un rapido accordo, la ricapitalizzazione delle banche greche con gli aiuti europei potrebbe slittare al 2016, quando entreranno in vigore le nuove norme sul bail-in, che prevedono di imporre perdite sui conti correnti sopra i 100 mila euro. “La principale vittima sarebbero le imprese greche, con un colpo durissimo per tutta l’economia”, spiega un responsabile dell’Eurogruppo. A Bruxelles, l’approccio di Tsipras solleva qualche sospetto in vista delle riforme più difficili che la Grecia è chiamata ad approvare nelle prossime settimane, prima di lanciare il negoziato su uno sconto del debito: innalzamento dell’età pensionabile e aumento delle tasse per gli agricoltori. Alcuni metodi di Tsipras non sono cambiati. Nell’ultimo braccio di ferro, il premier di Syriza non ha esitato a ricorrere a tattiche del passato per cercare di strappare concessioni ai creditori. Se durante il suo primo mandato aveva usato le relazioni con la Russia come arma di trattativa, questa volta Tsipras ha tentato di strumentalizzare la crisi dei rifugiati che minaccia l’Ue. “Non possiamo cacciare 50 mila greci dalle loro case e accogliere 50 mila rifugiati”, ha spiegato al Foglio un consigliere di Tsipras.
Misure di emergenza per la Catalogna
Fino alle elezioni catalane di settembre, vinte dai partiti indipendentisti, per l’Ue la secessione della Catalogna dalla Spagna era soprattutto un’ipotesi di studio. Ma dopo che lunedì il Parlamento di Barcellona ha votato una mozione indipendentista che avvia la creazione di un nuovo stato e promette di disobbedire alle leggi e alle istituzioni di Madrid, la Spagna e l’Europa devono sviluppare una strategia d’emergenza. Ieri il governo di Madrid ha attivato la procedura di ricorso al Tribunale costituzionale spagnolo, che dovrebbe sospendere la mozione di Barcellona e ritardare il processo di “disconnessione”, come l’hanno definito i catalani, ma la massima corte spagnola è proprio una di quelle istituzioni cui gli indipendentisti hanno giurato di disobbedire. Se il Parlamento catalano continuerà sulla via unilaterale, il premier Mariano Rajoy potrà intavolare una trattativa, oppure usare i poteri garantiti dalla Costituzione e costringere i catalani al rispetto dell’unità nazionale, entrando in un territorio inesplorato. Finora i leader e le istituzioni europee hanno detto quasi all’unanimità che una Catalogna indipendente sarebbe fuori dall’Unione per dare a Rajoy materiale su cui fare campagna, senza considerare le conseguenze (una grossa fetta di territorio europeo fuori dall’area Schengen, la perdita dell’hub dei trasporti di Barcellona, milioni di persone all’improvviso buttate fuori dall’Ue) e dando per scontati due elementi: che il processo di secessione sarebbe stato graduale e lentissimo, e che la leadership catalana non avrebbe mai smesso di professare un europeismo indefesso, come ha fatto negli ultimi anni. Ma dopo le elezioni di settembre, per mantenere la loro maggioranza gli indipendentisti pro Europa della Junts pel Sí del governatore uscente Artur Mas hanno dovuto consegnarsi ai veteromarxisti del Cup, partito estremista che vuole la Catalogna libera, fuori dall’euro e fuori dall’Unione. La causa catalana ha subìto un’accelerazione in senso populista, e oggi a Barcellona nessuno parla più d’Europa.
Schizofrenia nei confronti della Turchia
La Commissione europea ha infine pubblicato il report sullo stato dei diritti umani e della libertà di espressione in Turchia che aveva tenuto nel cassetto per non fare pressioni – questa la versione ufficiale – sul voto alle elezioni del primo novembre scorso (in realtà l’Ue faceva il tifo per l’Akp di Recep Tayyip Erdogan, considerato indispensabile per provare a contrastare il flusso di migranti verso l’Europa). Secondo il documento, “il ritmo delle riforme è rallentato”, alcune legislazioni adottate da Ankara “vanno contro gli standard europei”, e nell’ultimo anno “ci sono stati limiti significativi all’indipendenza del potere giudiziario come alla libertà di assemblea e alla libertà d’espressione”: “le nuove e persistenti accuse contro i giornalisti, gli scrittori e gli utenti dei social media, le intimidazioni ai giornalisti e ai media outlet così come le azioni dell’autorità che riducono la libertà dei media destano grande preoccupazione”. La Commissione invita anche la Turchia a tenere sotto controllo la sicurezza del paese, riavviando il dialogo di pace con il partito curdo Pkk. Come si sa però il negoziato per l’adesione di Ankara all’Ue è in stallo – se non defunto: dei 33 capitoli di negoziazione fissati nel 2005 ne è stato per ora completato uno soltanto – e nonostante le violazioni, Erdogan continua ad apparire comodo: l’Ue può così permettersi di dare sfogo all’ennesima sua schizofrenia.
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