L’assedio di Berlino
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Perché l’America non ne perdona più una alla Germania
di Stefano Cingolani | 26 Ottobre 2015 ore 10:25
Galeotto fu il dieselgate, ma la storia d’amore e d’interesse tra Stati Uniti e Germania era in crisi da tempo. Volkswagen, Deutsche Bank, Gazprom, le divergenze sul trattato transatlantico di libero scambio e quelle su Putin, l’Ucraina, la Nato, la Siria, lo spionaggio incrociato, i profughi e gli immigrati, la sterzata verso Erdogan. Il cahier de doléance è spesso e si riempie di pagine ogni giorno che passa. “Americani e tedeschi sono ancora i migliori amici?”, si chiede la Bbc: la domanda è retorica con risposta negativa. Michael Wertz del Center for American Progress, un pensatoio liberal, teme che gli Stati Uniti stiano perdendo la Germania. Del resto, secondo i sondaggi, solo un terzo dei tedeschi pensa che gli Usa meritino ancora fiducia. Hans Kundnani, dello European Council on Foreign Relations, ha pubblicato un libro edito in Italia da Mondadori (“L’Europa secondo Berlino. Il paradosso della potenza tedesca”) nel quale mette in guardia da una deriva orientalista che ricorda quel legame spirituale tra l’animo tedesco e l’animo russo del quale parlava Thomas Mann nelle “Considerazioni di un impolitico” del 1918. La Germania, insomma, collocata al centro del vecchio continente, con un asse politico-culturale che si è spostato dal Reno all’Oder, oggi sarebbe addirittura in bilico tra occidente e oriente. Elucubrazioni intellettualistiche? Scenari geopolitici da barbe finte?
Gli affari, dai tempi del Wirtschaftswunder, il miracolo economico finanziato dal piano Marshall, sono sempre stati un terreno d’incontro. Adesso invece sono una continua fonte di tensione. Lo scandalo Volkswagen è partito dagli Stati Uniti. E’ vero, i regolamenti sono diversi, gli standard sulle polveri e gli sputi degli scappamenti sono più rigidi di quelli europei e la miccia l’ha innescata un oscuro ingegnere del Michigan. Però, l’ha fatta esplodere a Washington l’Epa, l’agenzia governativa per la protezione dell’ambiente. Il New York Times non ha solo raccontato fatti e misfatti della truffa e l’epopea di John German, l’eroe no profit che ha svelato l’imbroglio, ma ha puntato il dito sulla scarsa trasparenza della Volkswagen, i patti occulti con le banche, la politica e i sindacati, specchio del consociativismo che domina l’intero sistema tedesco.
E la Deutsche Bank, pilastro del Modell Deutschland? La più grande banca tedesca ha cambiato di nuovo i suoi vertici (l’indiano Anshu Jain che nel 2012 aveva sostituito il tedesco Josef Ackermann, è stato rimpiazzato dal britannico John Cryan), deve fare pulizia nei bilanci, non sa come disfarsi della montagna di cartastraccia finanziaria (l’ammontare dei contratti derivati è stimato a 54 mila miliardi di dollari, venti volte il pil tedesco) accumulata in decenni di finanziamenti a go go, vuole licenziare in tronco 23 mila dipendenti, un quinto del totale, e chiudere sportelli di fronte alla necessità di realizzare risparmi fino all’osso. Ebbene anche la sua crisi è venuta alla luce grazie alla martellante campagna che Wall Street ha condotto. Voi mettete sotto accusa Goldman Sachs o JP Morgan? Ebbene, grattatevi le vostre rogne.
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Negli ultimi cinque anni, mentre il Dax, l’indice di borsa tedesco, raddoppiava, la Deutsche Bank lasciava sul campo quasi metà del suo valore. E anche il confronto con l’indice bancario della Ue è impietoso, dato che è in progresso del 13 per cento, per non parlare dello Stoxx 600 (che stima i principali 600 titoli europei) salito del 57 per cento. Un vero colpo basso arriva dai pesantissimi oneri dei contenziosi legali in cui la banca è incappata, il più grave dei quali nei confronti dello stato di New York, che ha messo sotto accusa alti dirigenti per aver manipolato il Libor (il tasso di riferimento dei mutui). La multa è costata due miliardi e mezzo di dollari, ma l’insieme dei risarcimenti dal 2011 ammonta a 7,8 miliardi (in Italia la banca tedesca è indagata per i derivati del Monte dei Paschi di Siena). E sui mercati corre voce che la Deutsche Bank possa diventare la nuova Lehman, deprimendo ancor più il valore del titolo. Se davvero deflagrasse, non crollerebbe solo Berlino.
C’è, poi, il braccio di ferro macroeconomico. L’amministrazione Obama batte ossessivamente sullo stesso tasto: la Germania che ha il bilancio pubblico in ordine (onore al merito) e una bilancia dei pagamenti con un attivo doppio rispetto a quello cinese, deve spendere ed espandere per sostenere l’economia europea e mondiale. Ogni riunione del G7 e del G20 da sette anni a questa parte, si conclude con un comunicato solenne che invita ad allentare i freni fiscali. La cancelleria tedesca ha sempre fatto orecchie da mercante.
Con la crisi dei debiti sovrani la tensione è arrivata al massimo: l’intervento di Obama ha fatto ingoiare alla Germania tre salvataggi della Grecia pur di non provocare il collasso dell’euro. In ogni momento chiave, la Casa Bianca e il ministero del Tesoro si attaccavano al telefono per convincere Angela Merkel a convincere il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble a convincere la Bundesbank a convincere il Bundestag che bisognava darsi una mossa.
Poi è arrivata l’invasione della Crimea, uno choc per Berlino e per Washington. “Né il presidente degli Stati Uniti né nessun altro nel suo team di politica estera aveva preso seriamente il problema della sicurezza in Europa. Il continente era considerato sicuro e noioso”, scrive su Foreign Affairs Anne Applebaum, editorialista di politica estera sul Washington Post. Nel frattempo, l’establishment tedesco si era spinto su un terreno scivoloso scegliendo la Russia come partner strategico in economia e anche in politica estera. Alla svolta del secolo aveva stretto legami fortissimi, diventando dipendente dal gas russo fino a livelli altamente rischiosi (la dipendenza energetica è arrivata al 38 per cento) e aveva puntato su Dmitrij Medvedev senza capire che era il fantoccio usato da Vladimir Putin per consolidare dietro le quinte il suo potere, ricostruire almeno in parte la forza militare russa, investire in compagnie strategiche in tutta Europa e presentarsi all’incasso.
Nel 2009 il ministro degli Esteri Sergej Lavrov parlando al German Marhall Fund e lo stesso Putin nel suo incontro faccia a faccia con Obama, avevano messo in chiaro la volontà di creare attorno alla Russia una corona di stati cuscinetto per tenere lontana una Nato considerata come minacciosa ed espansionista. L’Ucraina, insomma, è la riprova di una strategia che finora ha avuto successo a spese degli americani e degli europei. Angela Merkel, essendo cresciuta a Berlino est ha una storica diffidenza nei confronti della Russia, anche quella post sovietica, tuttavia si è accorta dell’errore quando la frittata era fatta, poi ha cercato di rimediare. Si è allineata sulle sanzioni nonostante l’ostilità aperta del complesso militar-industriale, dei socialdemocratici, di una parte del suo stesso partito. E ha negoziato con Putin gli accordi di Minsk per il cessate il fuoco e l’integrità di quel che resta dell’Ucraina. Obama le ha dato credito, la maggior parte del Congresso e dell’opinione pubblica americana, compresa quella liberal, invece, è convinta che i buoi siano ormai scappati e incolpa sia il presidente sia la cancelliera.
Presa in contropiede nell’area geopolitica più importante per la sua sicurezza e per la sua egemonia, l’onda d’urto dei rifugiati ha spinto Frau Merkel ad Ankara dove ha promesso a Recep Erdogan il sostegno per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea, pur di avere un aiuto ad arginare la marea migratoria. Una posizione che incontra l’aperta ostilità della Gran Bretagna e della Francia e lascia perplessi anche gli Stati Uniti, originariamente favorevoli all’europeizzazione della Turchia, ma preoccupati dall’autoritarismo di Erdogan e dai suoi giri di valzer (compresi quelli moscoviti). “E’ il momento sbagliato per fare queste aperture”, ha scritto David Gardner sul Financial Times, soprattutto se “presi dal panico”.
Non solo, Berlino ha sempre risposto no quando la Nato ha chiesto di far cadere il suo veto all’uso della forza. La Germania è intervenuta in Kosovo nel 1999 e in Afghanistan, poi se ne è pentita. Nel 2003 sull’Iraq l’allora cancelliere Gerhard Schröder ha contrapposto a quella americana “la via tedesca” che consiste nell’essere un fattore di mediazione diplomatica costi quel che costi, una “Friedensmacht”, una forza di pace, altra espressione molto usata da politici e diplomatici. I francesi se la sono presa quando Berlino ha rifiutato di aiutarli in Mali. Gli americani sono rimasti all’asciutto sulla Siria. Nel 2011 la Germania si è astenuta al consiglio di sicurezza dell’Onu sull’intervento militare in Libia, fianco a fianco con la Russia e la Cina contro Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Una nuova triplice alleanza contro la triplice intesa occidentale?
Il no a interventi in medio oriente e in nord Africa è la testimonianza di quanto lontana sia Berlino dal Mediterraneo, ben più di Bonn che negli anni della Guerra fredda si rendeva conto che un cambiamento degli equilibri strategici nella sponda sud sarebbe stato determinante anche per la Germania ovest. Quel che accade oggi in Grecia o in Italia, in Spagna o in Portogallo vale soprattutto per gli effetti sull’area euro. Mai si è sentito un discorso sull’importanza strategica di Roma e di Atene come baluardi contro le mire espansionistiche dell’islamismo radicale, il nuovo Califfato o “l’imperialismo musulmano”. E questo aumenta i sospetti americani che i tedeschi stiano diventando, ancora una volta, un problema per la stabilità internazionale e rafforza la pressione affinché abbandonino velleità terzoforziste o illusioni da congresso di Vienna e ritornino nell’alveo atlantico.
Berlino, a questo punto, si sente sotto assedio. E fiorisce il complottismo. Ein Komplott gegen Deutschland, non è più solo una chiacchiera da caffè. Gli americani sono gelosi della nuova forza economica tedesca e temono il suo ruolo centrale nei rapporti con la Russia e con la stessa Cina. Viene rievocato il vecchio e perfido detto secondo il quale l’Alleanza atlantica aveva come obiettivo di tenere gli Stati Uniti legati all’Europa nonostante la ricorrente voglia di mandare a quel paese il Vecchio Continente, la Russia fuori dallo scacchiere europeo occidentale e la Germania giù, a testa bassa, onde evitare nuovi grilli sullo spazio vitale, il Lebensraum guglielmino e poi nazista, o nuove tentazioni di una Europa neocarolingia erede del sacro romano impero. Insomma, come si diceva un tempo, “America in, Russia out, Germany down”.
Con l’unificazione, il Westbund, il legame con l’occidente che aveva segnato la politica della Germania ovest dopo la Seconda guerra mondiale, si è allentato. Al ministero degli Esteri c’è un esponente della Spd, Frank-Walter Steinmeier, a lungo considerato filo russo, inclinazione che appare anche dalle intercettazioni della National Security Agency. Del resto, perché mai gli americani avrebbero dispiegato una tale rete di spionaggio nei confronti della classe politica tedesca se l’avessero considerata leale fino in fondo? Proprio la linea di Steinmeier aveva suscitato forti perplessità quando nell’aprile 2014 aveva pubblicato su Foreign Affairs un articolo intitolato “La nuova Ostpolitik della Germania”.
Questa politica estera ha un braccio mercantile che arriva fino al Pacifico. In questi anni la Germania è diventata un paese trainato sempre più dalle vendite di prodotti sui mercati internazionali. Il peso delle esportazioni rispetto al prodotto interno lordo è passato dal 33 al 48 per cento del pil e la riposta tedesca alla crisi del 2008 non ha che rafforzato la tendenza. Il rapporto con l’estremo oriente si basa sulla potenza della macchina bancario-industriale: Volkswagen, Daimler, Siemens, Deutsche Bank sono i quattro cavalieri che guidano un vasto esercito di imprese medio-grandi, il cosiddetto Mittelstand. I frequenti viaggi a Pechino di Angela Merkel, accompagnata dai big dell’industria e della finanza, hanno consolidato il rapporto che si nutre anche di una ricaduta politica e strategica perché a partire dal 2008 la Cina coltiva sempre più il progetto di un rafforzamento dell’Unione europea come potenza concorrenziale agli Stati Uniti, nuova variante dell’Europa dall’Atlantico agli Urali che piaceva a Charles de Gaulle.
Anche se escludiamo la paranoia da birreria e i sospetti da spioni, è chiaro che i rapporti tra Germania e Stati Uniti sono al minimo. Un tentativo di ricucire lo ha fatto lo stesso Steinmeier, consapevole di essersi sbilanciato troppo, con un autorevole articolo sul New York Times. Secondo Marta Dassù, viceministro degli Esteri nei governi Monti e Letta, “il messaggio essenziale che arriva da Berlino è il seguente: la Germania ha riscoperto la politica estera e di difesa. Per troppi anni si era ‘accomodata’ nella sua posizione di potenza economica e basta, con una visione internazionale quasi mercantilista. Poteva rifuggire da responsabilità più dirette e costose, in materia di sicurezza, utilizzando le giustificazioni della storia e riparandosi dietro al cosiddetto ‘ombrello’ americano. Le cose stanno rapidamente cambiando e la Merkel ha scelto di fare da ponte. La Germania – aggiunge Marta Dassù – si colloca sia al centro della relazione con la Russia (da ricostruire a certe condizioni) sia al centro del rapporto con Washington (da tutelare e potenziare). Su entrambi i lati la Francia viene vista come utile supporto, mentre sul versante atlantico perde peso la Gran Bretagna, alle prese con le elezioni e con la propria auto-emarginazione dal cuore della politica europea”.
Una posizione scomoda che può rendere Angela Merkel bersaglio di un tiro incrociato da ovest, da est e dall’interno (gli storici partner bavaresi del Partito cristiano-sociale hanno alzato il tiro della polemica usando la crisi dei rifugiati siriani). All’Italia conviene suonare la grancassa della germanofobia o aiutare questa riconversione per presentarsi a sua volta come ponte sul fianco meridionale? Chissà se nel governo qualcuno, alzando gli occhi da twitter, avrà voglia e tempo di farci una pensata e dare una risposta?
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