Russia, la minaccia terroristica dietro le mosse di Putin
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Migliaia di foreign fighter. Le spinte estremiste nel Caucaso. E quelle nel Pamir. L'instabilità cresce. E spaventa lo zar. Che vuole blindare le frontiere ex Urss.
di Stefano Grazioli | 22 Ottobre 2015 Lettera 43
In 15 anni di permanenza al Cremlino, dove è entrato nel marzo del 2015, Putin ha mostrato sostanzialmente due facce, almeno in politica estera.
La prima pacifica, la seconda più belligerante.
Il cambiamento è avvenuto a metà strada, quando in realtà presidente della Federazione era Dmitri Medvedev, ma dallo scranno di primo ministro era sempre Vladimir Vladimirovich a tenere le redini del Paese.
PUGNO DURO CON GEORGIA E UCRAINA. Nel 2008 è arrivato così l’intervento militare in Georgia, seguito da quello del 2014 in Crimea a da quello del 2015 in Siria.
Nel primo e nel secondo caso si è trattato di operazioni in quello che Mosca considera ancora il proprio giardino di casa, lo spazio ex sovietico nel quale dal 1991 sono sorti stati indipendenti: dopo le svolte rivoluzionarie filoccidentali pilotate dall’esterno, sia con Tbilisi che con Kiev sono state adottate le maniere forti.
Il Cremlino ha risposto ai regime change stabilendo con la forza nuovi confini. In Georgia sono state supportate le repubbliche ribelli di Abcasia e Ossezia del Sud, in Ucraina è stata annessa la Crimea e creato il buco nero del Donbass.
LA DIFESA DEGLI INTERESSI NAZIONALI. Il caso siriano è diverso, ma il sostegno a Bashar al Assad rientra in quella che è la strategia russa di difesa degli interessi nazionali che sono identificati non solamente sul territorio russo.
In questo modo vengono difesi lo storico alleato e la presenza sul Mediterraneo nella base di Tartus attraverso la nuova missione ufficiale che è quella della lotta allo Stato islamico.
Che proprio questo dossier riguardi Putin è evidente a partire dal fatto che il terrorismo islamico è di casa nella Federazione non solo da quando circa 4 mila cittadini russi sono andati a rafforzare le fila dei radicali in Medio Oriente.
Il caos in Medio Oriente preoccupa lo zar
Il Caucaso russo, ossia le repubbliche islamiche a partire da Cecenia o Inguscezia, e la ex periferia del vecchio impero sovietico, ovvero gli odierni stati dell’Asia centrale, sono pezzi di un mosaico che a corrente alternata negli ultimi 25 anni ha messo in allarme il Cremlino.
Si va dall’ondata terroristica scaturita dalle due guerre in Cecenia (1994 e 1999) che ha lasciato una lunga via di sangue a Mosca e dintorni, alla guerra civile in Tagikistan che nella prima metà degli Anni 90 (1992-1997) ha fatto 100 mila morti nell’ex repubblica sovietica, agli effetti collaterali di quella in Afghanistan (dal 2001 in avanti) nelle regioni adiacenti, dove spesso e volentieri gli autocrati locali, dall’Uzbekistan al Kazakistan, non son andati per il sottile silenziando allo stesso tempo terroristi, minoranze etniche, religiose e opposizione politica.
SPINTE ESTREMISTE NEL CAUCASO. Il caos in Medio Oriente, arrivato con le guerre in Iraq, Libia e Siria, e la minaccia di un nuovo terrorismo di matrice islamica in formato globale, ha riportato d’attualità la questione sia per Putin che per i colleghi centroasiatici.
E non è un caso che ci sia tra tutti unità d’intenti nel voler arginare l’estremismo che tra Caucaso e Pamir è di nuovo in voga, rinfocolato appunto dal disordine mediorientale.
L’idea di una task force guidata dalla Russia che controlli le frontiere della Csi, la Comunità degli stati indipendenti che comprende parte delle vecchie repubbliche dell’ex Urss, risponde insomma alle sollecitazioni esterne, mettendo in chiaro il ruolo guida che Mosca ha assunto sul palcoscenico regionale.
I GRATTACAPI DI PECHINO. Anche nell’ambito della Sco, l’Organizzazione di Shanghai con cui la Russia va a braccetto con la Cina, gli interessi sono analoghi, vista l’esigenza di Pechino di tenere sotto controllo le province islamiche orientali.
Il piano di Putin è dunque quello di rafforzare la presenza militare russa per ragioni che comunque vanno al di là delle minacce contingenti e rientrano invece in un progetto di ampio respiro.
Nello spazio postsovietico la Russia ha già un pugno di basi militari in Armenia, Georgia (Abcasia e Ossezia del Sud), Kazakistan , Kirghizistan, Moldavia (Transnistria), Tagikistan e Ucraina (Crimea) e l’intenzione di Vladimir Vladimirovich è di esercitare maggiore pressione sulla scacchiera euroasiatica guardando ai propri interessi.
E costringendo l’Occidente a ripensare le proprie strategie, sia quelle sino ad ora adottate nei confronti della Russia che quelle messe in atto dal Medio Oriente all’Asia centrale.
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