Dati e obiettivi. Perché a Putin la guerra non sta andando troppo bene
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In tre settimane soltanto il dieci per cento delle missioni contro lo Stato islamico. A terra l’offensiva va a rilento
Gli strike russi in Siria tra il 30 settembre e il 14 ottobre in una mappa realizzata dall'Institute for the Study of War
di Daniele Raineri | 21 Ottobre 2015 ore 06:03
In Siria alcuni gruppi armati stanno bloccando l'avanzata dell'esercito governativo grazie ad armi anticarro americane
Roma. Oggi sono tre settimane dall’inizio delle operazioni militari della Russia in Siria, cominciate mercoledì 30 settembre, due giorni dopo un discorso molto atteso del presidente russo Vladimir Putin alle Nazioni Unite. Putin disse in quell’occasione che è necessario creare un’ampia coalizione internazionale “come ai tempi di Hitler” per combattere lo Stato islamico. Nei giorni successivi le dichiarazioni di politici e generali russi e i titoli usati dai media nazionali hanno battuto con insistenza su un concetto: la Russia entra in guerra in Siria per distruggere lo Stato islamico, il gruppo estremista guidato da Abu Bakr al Baghdadi che controlla larghe aree del paese e dell’Iraq. Come vedremo, per ora non è così.
Putin ha deciso che non ci saranno boots on the ground, quindi niente soldati impegnati a terra, ma soltanto operazioni con gli aerei e gli elicotteri. I bombardamenti russi sono in media cinquanta al giorno e colpiscono soprattutto quattro aree, Hama, Homs, Latakia e Aleppo, che sono lontane dallo Stato islamico. Se si guarda una mappa della Siria, queste regioni sono a sinistra, più o meno vicino al mare Mediterraneo. Le città in mano allo Stato islamico sono invece a destra, verso il confine con l’Iraq. I piloti inviati da Mosca in Siria bombardano lo Stato islamico in circa il 10 per cento delle missioni, secondo i governi di Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Tutte e tre le nazioni hanno aerei impegnati contro lo Stato islamico a est e quindi si devono coordinare con la Russia, sorvegliano le rotte e lo spazio aereo condiviso e vedono in tempo reale chi fa che cosa.
Tutto il resto della guerra aerea dei russi è contro un misto di gruppi armati che ha visioni assai diverse sul futuro della Siria: si parte dalle fazioni che combattono sotto la vecchia sigla del Fsa (“l’esercito libero”), sono passate al vaglio del governo americano e quindi ricevono armi e si arriva a Jabhat al Nusra, che è al Qaida in Siria. La pressione dei bombardamenti e delle offensive di terra per ora crea tra queste fazioni un clima di tregua e di “sospensione delle divergenze”: tutti sono impegnati a combattere in nome degli unici due punti programmatici che hanno in comune, che sono l’ostilità contro il presidente Bashar el Assad e contro lo Stato islamico.
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La lista dei bersagli colpiti non è precisa perché il ministero della Difesa russo sostiene che tutte le sue missioni sono sempre contro lo Stato islamico anche quando bombardano aree dove il gruppo non c’è, e definisce “dello Stato islamico” qualsiasi bersaglio, anche quando non è così. Domenica il ministero russo ha cominciato a differenziare un po’ i suoi comunicati e a citare il Jaysh al Fath, che in arabo vuol dire “L’esercito della Conquista”, ed è una lega di fazioni islamiste che comprende anche al Qaida.
La prima settimana della missione russa in Siria è stata consumata in bombardamenti “di preparazione”. Le altre due settimane sono state spese in altri bombardamenti meno generici e più specifici – sono arrivati anche gli elicotteri da guerra, che volano radente al suolo per individuare meglio i bersagli. I piloti russi seguono dall’alto quattro grandi offensive di terra lanciate da forze miste, siriane e iraniane. Anche in questo caso, i soldati non attaccano lo Stato islamico, ma le aree controllate dai tanti gruppi citati prima. In un caso in effetti avanzano 10 chilometri in territorio controllato dagli uomini di Baghdadi, per arrivare all’aeroporto militare di Kweres. E’ una base stretta d’assedio da anni e se anche questa come altre in passato cadesse in mano agli estremisti – con video di esecuzioni e di saccheggi – sarebbe un brutto colpo da incassare per la coalizione russo-iraniana-siriana. Significherebbe che niente è cambiato con l’intervento di Mosca. Quell’assedio va rotto.
Due giorni fa alcuni ufficiali russi che preferiscono restare anonimi hanno parlato con la rivista americana Bloomberg News e hanno spiegato che l’obiettivo delle operazioni decise da Mosca è più vasto di quanto è stato dichiarato in via ufficiale, ed è riprendere “quanto più territorio possibile” e combattere fino alla eliminazione dei gruppi armati “che non sono Stato islamico” – in modo da costringere il mondo a una scelta: o Assad oppure lo Stato islamico. Se il piano funzionasse e si arrivasse a tanto, la questione si risolverebbe con un intervento a favore di Assad, che rappresenta un problema regionale e non una minaccia internazionale. Ma prima ci sarebbe, appunto, da allargare il controllo del governo alla Siria del nord e da sconfiggere tutti gli altri gruppi. Gli ufficiali dicono a Bloomberg anche che la durata prevista delle operazioni potrebbe essere un anno o più – e questo smentisce una fonte della Duma, il Parlamento russo, che tre settimane fa aveva detto a Reuters che la durata prevista era “di tre, massimo quattro mesi”.
Un ultimo pezzo del piano militare della Russia in Siria: due giorni fa il generale Andrey Kartapolov ha spiegato che Mosca considera il nord della Siria “in mano a Nusra”, quindi ad al Qaida e quindi un bersaglio legittimo. Il sud invece è considerato dai russi controllato dal Fsa e quindi i piloti russi non bombardano quella zona. In realtà la distinzione non è così netta: Jabhat al Nusra è presente anche a sud di Damasco – è controllata in quella zona da Iyad al Tubasi, un leader islamista che ha combattuto con Abu Mussab al Zarqawi ai tempi della guerra in Iraq contro gli americani. Forse la ragione vera è la troppa vicinanza al confine israeliano: Mosca e Gerusalemme hanno lavorato a un accordo di massima per evitare gli incidenti pericolosi, che sta funzionando, più o meno. Ieri mattina gli aerei russi hanno intercettato e bloccato alcuni jet israeliani in missione di sorveglianza sopra i monti libanesi. Per quanto riguarda il generale Kartapolov: la stampa russa lo ha presentato venerdì scorso come il comandante delle operazioni russe in Siria – anche se da Mosca. Kartapolov è il vice del ministro della Difesa russo Sergei Shoigu.
Questa scelta politica fatta a Mosca – combattere con le spalle allo Stato islamico, per ora – è confermata dai movimenti sul campo. Cinque giorni fa è cominciata un’offensiva di terra con lo scopo di riprendere Aleppo, la città che prima della guerra era la più popolosa della Siria. Sempre guardando la cartina: i soldati che arrivano da sud hanno in teoria due opzioni, o vanno verso sinistra, per riprendere Aleppo, oppure vanno a destra verso Raqqa, la capitale siriana dello Stato islamico. La battaglia per riprendere Aleppo dalle mani di fazioni che non sono lo Stato islamico potrebbe durare a lungo. Nel frattempo una forza mista formata da curdi e da gruppi arabi armati dagli americani e con un nome appena coniato (“Forze siriane democratiche”) si sta avvicinando con lentezza da nord per espugnare Raqqa: se le cose non mutano, saranno loro e non i soldati siriani e iraniani a raggiungere la capitale degli estremisti.
Ci sono state due grandi sorprese in queste prime tre settimane di guerra con i russi in Siria. I gruppi armati resistono più del previsto grazie a rifornimenti di missili anticarro, con i quali fanno saltare in aria i carri armati e i veicoli blindati dell’esercito siriano. Ne hanno sparati sessantadue soltanto nei primi quindici giorni di ottobre, quasi tutti nella pianura a nord di Hama e l’effetto per ora è stato dirompente: l’avanzata degli assadisti in quella zona ha guadagnato circa quattro chilometri, con perdite di decine di mezzi e effetti demoralizzanti sugli equipaggi (i missili anticarro perforano le corazze grazie al calore che sprigionano). E’ il risultato di un’operazione congiunta di americani, sauditi e turchi. La seconda sorpresa è che in una settimana la catena di comando “straniera” che appoggia Assad è stata colpita da una serie di uccisioni mirate – e il tempismo fa pensare a una regia esterna, che aspettava soltanto un ordine per agire. Tra i comandanti assassinati ci sono il generale iraniano più alto in grado in Siria, Hossein Hamedani, un capo delle milizie iraniane Bassij, Nader Hamid, e il comandante più alto in grado dentro la Siria del movimento libanese Hezbollah.
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