Operazioni spot? Le guerre non si vincono giocando dal cielo
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Gran professore della sinistra francese contro la retorica anti interventista sulla Siria. Intervista del Foglio a Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, professore a Sciences Po e consulente del ministero degli Esteri francese per le questioni di sicurezza
di Mauro Zanon | 14 Ottobre 2015 ore 13:49 Foglio
"Se qualcuno immagina di risolvere il problema della Siria dicendo: 'stamattina mi alzo e decido che facciamo i bombardamenti' auguri e in bocca al lupo, ma non risolverà il problema. La Libia sta lì a dimostrarlo". Così il presidente del Consiglio Matteo Renzi è intervenuto in mattinata alla Camera sulla questione mediorientale e sul possibile intervento in Siria. Il premier ha sottolineato come serva "una coalizione internazionale contro il terrorismo" e ka costruzione di "condizioni di dialogo più ampie possibili. Partendo dal dato di fatto che l'accelerazione della politica c'è anche nel nuovo ordine internazionale".
Parigi. “Bisogna ricordare che, se gli interventi militari hanno un costo, anche i non-interventi lo hanno”. Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, professore a Sciences Po e consulente del ministero degli Esteri francese per le questioni di sicurezza, lo ha ricordato in una “tribune” pubblicata dal Monde martedì intitolata “Sì, l’intervento militare è spesso necessario”. Una presa di posizione smarcata rispetto alle quotidiane litanie anti-interventiste e allo stesso tempo un invito agli irenisti di ogni latitudine a finirla con la selezione esclusiva degli interventi finiti male e l’oblio disonesto delle operazioni militari che invece hanno migliorato la situazione in alcuni paesi. “C’è una abitudine diffusa a tenere discorsi pacifisti che condannano tutti gli interventi militari per principio. Tutti gli esempi che questi pacifisti danno si concentrano sugli interventi che non hanno funzionato, quindi la Libia, l’Afghanistan, l’Iraq, perché la situazione venutasi a creare in seguito a essi sembra peggiore della precedente, o della situazione che si sarebbe creata senza intervento (scenario controfattuale impossibile da verificare). Trovo disonesto il fatto di trarre conclusioni sull’interventismo militare in generale a partire dai tre casi peggiori”, dice al Foglio Jeangène Vilmer.
ARTICOLI CORRELATI Come combattono in Siria i gruppi ribelli armati dalla Cia Il nuovo stato confusionale dell’Ue La guerra italiana Perché la Francia bombarda lo Stato islamico in Siria “Per essere onesti intellettualmente, bisognerebbe prendere in considerazione tutti gli interventi militari degli ultimi quindici anni come ad esempio il caso del Mali, che senza le operazioni francesi avrebbe presto assistito alla nascita di un altro stato jihadista, o della Repubblica Centrafricana, dove è stato evitato un altro genocidio. L’attitudine intellettuale che consiste nel selezionare solo i tre interventi che non hanno portato a un miglioramento della situazione passata, dimenticando volutamente gli altri che hanno avuto risultati benefici, è da disonesti”. L’intervento militare è necessario anche in Siria, contro Daech (acronimo arabo per designare l’Isis): “È necessario perché mentre in Iraq l’espansione dell’Isis è stata relativamente controllata, in Siria le milizie jihadiste continuano ad espandersi. Daech, ricordiamolo, ha un ambizione transnazionale e si estende su due territori allo stesso tempo. Bisogna combatterlo sia in Siria sia in Iraq. In secondo luogo è necessario intervenire perché Daech non è soltanto una minaccia regionale, ma globale. La sua ambizione manifesta è quella di commettere attentati in Europa, e in Francia in particolare. E’ anche una questione di legittima difesa da questo punto di vista”.
Un sondaggio pubblicato a metà settembre dal Journal du Dimanche ha evidenziato che il 56 per cento dei francesi è favorevole ai “boots on the ground” in Siria. “Non so se sia la migliore idea una grande offensiva terreste”, dice Jeangène Vilmer. “Tuttavia, sono necessarie delle operazioni terrestri mirate, non si può pensare di risolvere tutto dal cielo. La soluzione è quella di dispiegare forze speciali che accompagnino gli alleati locali, l’esercito irachiano e i peshmerga curdi. Sono favorevole al dispiegamento di truppe di terra, ma non a una grande occupazione terrestre come in Afghanistan e in Iraq perché non hanno dimostrato la loro efficacià”. Ai dubbi su un’offensiva terrestre di ampio raggio, si affianca una ridondante e autodenigratoria critica postcolonialista di certi milieu intellettuali sia all’esterno che all’interno dei confini francesi. Una critica, secondo Jeangène Vilmer, “ampiamente infondata”, “che fa degli interventi il sintomo del neocolonialismo occidentale”: “La critica postcolonialista è presente negli ambienti delle relazioni internazionali ed è allo stesso tempo la posizione dei paesi emergenti: del Brasile, dell’India, della Cina, dell’Africa del Sud e di molti altri paesi africani. L’opinione pubblica francese, agitata da un senso di colpa per il passato coloniale, è anch’essa sensibile alla critica postcolonialista. Per i suoi sostenitori non dovremmo intervenire più da nessuna parte perché l’intervento militare è per principio la causa dei problemi”.
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