Un esodo in disordine sparso

Ricognizione sui quadranti europei sottoposti alla pressione migratoria. Risultato: per evitare troppi guai è meglio trovarsi un amico nei luoghi caldi, come il Marocco

I numeri degli ingressi in Europa tra gennaio e luglio (giugno per il Mediterraneo occidentale) di quest’anno attraverso le principali rotte migratorie (dati Frontex)

di Eugenio Cau | 11 Settembre 2015 ore 06:18 Foglio

Il Mediterraneo occidentale. In Spagna gli ingressi non si contano in sbarchi, ma in salti. Quelli dai muri di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole in territorio marocchino che per migliaia di immigrati e richiedenti asilo provenienti soprattutto dall’Africa subsahariana sono una porta per l’Europa. Fino a pochi mesi fa era da lì che arrivavano alcune delle immagini più terrificanti della crisi migratoria europea, con migliaia di disperati che a ondate si gettavano contro i molteplici valichi di mattoni, reti e filo spinato, mentre i militari spagnoli li respingevano con getti d’acqua e pallottole di gomma. La Spagna è un paese di frontiera, oltre a Ceuta e Melilla è esposta ai flussi migratori anche lungo le coste andaluse, dove arrivano le imbarcazioni dal Marocco, e fin dai tempi del governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero ha scelto una politica di respingimenti dura, in cui spesso alle pallottole di gomma sparate dai valichi si sono sostituiti proiettili veri. Ma la crisi migratoria attuale mostra quanto sia fondamentale avere un interlocutore stabile dall’altra parte del Mediterraneo. I dati Frontex mostrano che a fronte delle centinaia di migliaia di sbarchi sulle coste di Italia e Grecia, da gennaio a giugno del 2015 gli immigrati entrati illegalmente in Spagna sono 6.698, in calo rispetto al 2014 e una frazione dei quasi 40 mila del 2006. Il merito è soprattutto degli accordi di cooperazione bilaterale sviluppati tra la Spagna e il governo del Marocco, stabiliti nel 2006 e rafforzati nel 2012, che secondo dati del governo marocchino hanno ridotto l’ingresso di immigrati illegali in Spagna del 92 per cento. Rabat impedisce ai migranti di tentare la scalata dei muri di Cauta e Melilla, e sgombera periodicamente gli accampamenti che gli irregolari formano davanti ai valichi per aspettare il momento buono per tentare il salto, subendo le accuse di violazione dei diritti umani da parte delle ong. Pattuglia in maniera costante le coste e le zone di imbarco, e secondo dati del governo nel 2014 la polizia marocchina ha arrestato 37 mila irregolari, 20 mila dei quali stavano tentando di entrare in Spagna. Nello stesso periodo la polizia ha disperso 80 ondate massicce di migranti. “Vediamo quello che succede nel Mediterraneo centrale e orientale”, ha detto di recente Jorge Fernández Díaz, ministro dell’Interno spagnolo. “Se una tragedia umanitaria non si sta verificando da noi è soprattutto grazie alla collaborazione con il Marocco”.

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Così la penisola iberica gioca un doppio ruolo, di paese di frontiera e al tempo stesso, a differenza di Italia e Grecia, di falco europeo sui temi migratori. Il premier Mariano Rajoy, insieme al collega britannico David Cameron e ai governi dell’Europa orientale, è tra i più critici nei confronti delle politiche di redistribuzione dei rifugiati.

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Il Mediterraneo orientale. La frontiera del Mediterraneo orientale, che comprende Italia e Grecia, sta scontando con la crisi migratoria di questi mesi una serie di deficienze strutturali che esistono da anni. Frontex distingue due diverse rotte migratorie, quella del Mediterraneo centrale che parte dalla Tunisia e soprattutto dalla Libia per arrivare in Italia e a Malta, e quella del Mediterraneo orientale, che parte dalle coste turche e ha come obiettivo principale la Grecia. Insieme, Italia e Grecia hanno subìto oltre 223 mila ingressi illegali da gennaio a luglio di quest’anno, circa 91 mila sulla rotta centrale e 132 mila sulla rotta orientale. Sono il fulcro della crisi, che è stata aggravata dai problemi strutturali dei due paesi, che comprendono la permeabilità dei confini, politiche di asilo inefficienti, controlli interni deboli e un’alta diffusione della criminalità organizzata che gestisce i traffici di uomini. La Grecia, già stremata dalla crisi del debito, manca dei mezzi per affrontare la crisi migratoria. Solo nella seconda settimana di agosto, ha scritto l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) in un report pubblicato il mese scorso, sono arrivate in Grecia 21 mila persone, la metà degli arrivi totali del 2014, e il numero degli sbarchi sta portando al collasso le strutture di accoglienza del paese. Lo sviluppo della rotta orientale ha risparmiato all’Italia un incremento massiccio degli sbarchi, che sono in aumento lieve rispetto a quelli dell’anno scorso. Nel 2014 la rotta che dalla Libia salpava verso l’Italia è stata la più trafficata del Mediterraneo, con circa 170 mila sbarchi ma, scrive il Council of Foreign Relations, il deterioramento della situazione di sicurezza in Libia e l’aumento del numero delle vittime in mare, passate, secondo l’Ispi, da 1,9 ogni 100 sbarcati nei primi dieci mesi del 2014 a 6,8 nei primi quattro mesi del 2015, hanno convinto molti migranti e rifugiati a prendere la più sicura via dell’est.

Italia e Grecia hanno ottenuto questa settimana dall’Europa una condivisione del peso degli sbarchi, con l’approvazione di un piano di redistribuzione di 160 mila rifugiati, ma scontano ancora le accuse di non rispettare il trattato di Dublino e lasciar passare illegalmente gli immigrati per il loro territorio. Una delle ragioni dell’impreparazione di Italia e Grecia, dice al Foglio Maurizio Ambrosini, sociologo ed esperto di migrazioni dell’Università di Milano, è il fatto che “non abbiamo mai avuto una vera politica di asilo. La nostra politica è stata quella della tolleranza e del passaggio”.

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I muri dell’est. Il muro di filo spinato del premier ungherese Viktor Orbán è il simbolo fisico e anche ideologico della posizione dell’Europa orientale davanti alla crisi migratoria, in cui paesi divisi politicamente si trovano uniti nella condanna delle politiche di solidarietà nei confronti dei migranti e di ripartizione dei rifugiati. Ci sono sfumature, certo, perché dal rifiuto totale dell’Ungheria, dove Orbán ha chiesto la salvaguardia dell’identità cristiana dell’Europa davanti all’avanzata dell’immigrazione, si passa alle posizioni più sfumate della Polonia, che dopo la presentazione questa settimana del piano europeo per la ripartizione dei rifugiati ha promesso un maggiore impegno del suo paese, anche se il numero di rifugiati che Varsavia è pronta ad accogliere resta ridotto, e permane una condizione comune a tutta la regione: vogliamo rifugiati cristiani. Vale per la Slovacchia, che ha promesso di ospitare 200 rifugiati tutti cristiani, e per la Repubblica Ceca, che accetterà 1.500 persone, ma sceglierà solo quelle capaci di integrarsi nel tessuto della società. I sondaggi sono compatti. In una serie di rilevazioni di giugno il 61 per cento dei polacchi e il 70 per cento di cechi e slovacchi erano contro l’accoglienza dei rifugiati, e due terzi degli ungheresi ritengono che i rifugiati siano “un pericolo per il paese”.

Per l’Europa orientale la crisi migratoria di questi mesi è un fenomeno nuovo. La regione è sottoposta alla pressione migratoria della rotta balcanica, che secondo Frontex tra gennaio e luglio ha portato 102 mila persone ai confini dell’Ungheria, e ha messo a dura prova una serie di paesi che dalla fine della Seconda guerra mondiale hanno goduto di un’omogeneità della popolazione quasi assoluta, che è proseguita anche dopo la caduta dell’Unione sovietica. Quelle dell’Europa dell’est sono società chiuse, identitarie, dove il nazionalismo è stato usato strumentalmente tanto dai sovietici quanto dai governi successivi, e che oggi si trovano davanti a un problema di migranti che prima non si erano mai posti per davvero. Queste condizioni, più ancora che l’insorgere di movimenti razzisti, rendono il quadrante est diffidente, e convinto di avere ancora bisogno di solidarietà da parte dell’Europa, non certo pronto a fornirne.

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Il fronte nord. Due immagini caratterizzano il quadrante nord dell’Europa, quello della meta finale: il ritratto della cancelliera tedesca Angela Merkel portato come un’icona religiosa dai rifugiati in cammino verso la Germania e l’inserzione del governo danese su dieci giornali libanesi che intima ai migranti di non viaggiare verso il paese. E’ lungo questi due poli che cercano di muoversi gli Stati in cui migranti vogliono approdare. E’ in quest’area che Germania e Svezia, da sole, ospitano oltre la metà dei migranti arrivati in Europa ed entrambe hanno promesso di aumentare il livello della loro accoglienza. In quest’area la Danimarca blocca i rifugiati sui treni, e il governo britannico di David Cameron propone una linea di ragionevolezza e durezza al tempo stesso, che implica la risoluzione dei problemi alla fonte, in Siria, ma sconta le immagini terribili che arrivano dallo stretto di Calais e quelle ancora più terrificanti che arrivano dalle coste turche, e costano a Londra l’accusa ingiustificata di crudeltà, la stessa temuta dal presidente americano Barack Obama, che ieri ha annunciato l’accoglienza in America di 10 mila rifugiati siriani l’anno prossimo.

In Danimarca quest’anno il governo di centrodestra ha tagliato della metà i fondi destinati ai rifugiati, ma nonostante questo 3.200 persone sono entrate nel paese soltanto negli ultimi quattro giorni, quasi tutte con l’intenzione di proseguire verso la Svezia. Stoccolma attende l’arrivo di 80 mila rifugiati quest’anno, ma l’accoglienza svedese sta diventando un caso isolato in Scandinavia, dove l’ascesa di partiti politici identitari contribuisce all’indurimento delle politiche migratorie in Norvegia e Finlandia (nonostante la promessa del premier finlandese Juha Sipilä di offrire la sua abitazione a un rifugiato). “La Germania, la Danimarca e la Svezia sono in una situazione di emergenza”, ha detto il primo ministro danese Lokke Rasmussen, il cui governo di minoranza dipende dall’appoggio del Partito del popolo danese, anti immigrazione.

La Germania attende 800 mila richieste di asilo quest’anno, e la cancelliera Merkel ha annunciato che i tedeschi dovranno aspettarsi numeri simili anche nei prossimi anni, mettendo alla prova la sua popolarità in favore di obiettivi demografici di lungo termine, e per ora godendo del titolo di “madre dei siriani”. E’ la stessa Merkel che pochi anni fa diceva che “il multikulti ha fallito completamente”, e questo mostra tutte le contraddizioni che ancora devono essere sciolte.

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