Il grande reietto, Dopo averne boicottato i libri, l’Italia ha ignorato anche la morte di Robert Conquest,
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lo storico che svelò al mondo i crimini di Stalin
Stalin in un manifesto di propaganda sovietica. “Il grande terrore” fu pubblicato nel 1968, quattro anni prima di “Arcipelago Gulag”
di Giulio Meotti | 24 Agosto 2015 ore 09:27
Susan Sontag era una stella in visita al campus di Stanford nel 1990. Quando le venne presentato Robert Conquest, l’icona dell’intellighenzia liberal esclamò: “Tu sei il mio eroe!”, abbracciando poi lo storico settantenne. In quello stesso periodo il poeta e premio Nobel Czeslaw Milosz, parlando di Conquest, lo aveva definito “il poeta che aveva ragione”. Conquest si è spento alcuni giorni fa in California a novantacinque anni a causa di una polmonite. “L’uomo che ce lo aveva detto”, ha titolato l’Economist nel suo coccodrillo. “Lo storico eroe morale”, recita il Weekly Standard e The Nation, rivista della sinistra radical, ha pianto “il grande uomo di lettere”. In Italia, invece, per Conquest è stata una damnatio memoriae. La Repubblica non ha neppure riportato la notizia della sua scomparsa, la Stampa e il Corriere della Sera hanno pubblicato due brevi commenti di Gianni Riotta e Federico Argentieri, mentre lo storico Francesco Perfetti lo ha omaggiato sul Giornale. Per il resto, silenzio totale. Nessun mistero, quanto la prosecuzione di un boicottaggio che pesò su Conquest anche da vivo.
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“Dedicato, con il suo permesso, a Robert Conquest, precoce antifascista, precoce antistalinista, poeta e mentore, fondatore del ‘fronte unito contro le cazzate’”, aveva scritto Cristopher Hitchens sul frontespizio di un suo saggio in difesa di Orwell. La Casa Bianca gli aveva assegnato la Medaglia presidenziale per la libertà, in cui Conquest figurava al fianco di Aretha Franklin, Alan Greenspan e Muhammad Ali. Paul Johnson lo aveva definito “il nostro più grande storico vivente”, il letterato che aiutò Margaret Thatcher a scrivere il discorso sul comunismo che la rese famosa come la “Iron Lady”.
“I libri di Conquest hanno avuto un enorme impatto sul dibattito sull’Unione sovietica, sia in occidente sia a est”, aveva detto Radoslaw Sikorski, ministro polacco degli Affari esteri, mentre gli assegnava la Medaglia al merito. “Sentivamo il bisogno di una conferma che l’occidente sapeva cosa stava succedendo dietro la cortina di ferro e i libri di Robert Conquest ci hanno dato tale conferma. Hanno trasmesso un messaggio di solidarietà con gli oppressi e ci hanno dato la speranza che la verità avrebbe prevalso”.
Conquest non era nato anticomunista. Nel 1938, iscritto al Partito comunista inglese, prese parte alla Guerra civile spagnola dalla parte dei repubblicani. Anni dopo avrebbe contribuito a far cadere un impero totalitario con una combinazione straordinaria di immaginazione storica e vecchio stile dell’empirismo inglese. Bon vivant, era reduce da quattro matrimoni, l’ultimo con Liddie, sposata nel 1979, che ne curava i manoscritti, la corrispondenza e le interviste. Conquest leggeva francese, tedesco, italiano, ceco, russo, bulgaro, greco e latino. Si dilettava di fantascienza. In un’intervista con il Los Angeles Times nel 1986 disse che perdere tempo dietro alla fantascienza “è stato utile per ottenere la giusta prospettiva sui sovietici”. Come Churchill, era un mezzo sangue: nato nel 1917 in un hotel, da un padre gentiluomo americano della Virginia e una madre inglese. Da qui la sua passione per quella che chiamava “anglosfera”.
Quando apparve la prima edizione del suo libro più celebre, “Il grande terrore”, nel mondo accademico e intellettuale dominava l’idea che le purghe, quando non venivano negate, fossero il risultato della personalità di Stalin. Conquest sostenne il contrario, ovvero che la repressione era inerente al comunismo. La cifra di tredici milioni di morti, avanzata dallo storico e contestata come “propaganda controrivoluzionaria” durante la Guerra fredda, trovò conferma quando egli poté accedere agli archivi degli ex servizi segreti sovietici e alla documentazione ufficiale. Il libro di Conquest, uscito nel 1968, ignorato in Italia per trent’anni, oggi è di nuovo introvabile nelle nostre librerie (nelle Feltrinelli di Roma non c’è una sola copia disponibile del “Grande terrore”): sparito, inghiottito dall’oblio.
Fu sempre Conquest a scoprire che la “Grande carestia” che settant’anni fa, tra il 1932 e il 1933, uccise in Ucraina tra i sette e i dieci milioni di persone, non fu una fatalità, ma un’operazione organizzata da Stalin per piegare i contadini che resistevano alla collettivizzazione. Oggi sappiamo che non è vero, come sostiene Conquest, che Stalin abbia voluto uccidere in massa i contadini. E’ vero piuttosto che usò la carestia per punire l’Ucraina in modo esemplare e per spezzare la resistenza dei contadini. Il risultato, però, non cambia. Ed è quello che ha scoperto Conquest per primo.
Per parafrasare Timothy Garton Ash, “Conquest era Solgenitsin prima di Solgenitsin”. Il suo “Grande terrore” apparve quattro anni prima di “Arcipelago Gulag”. In Italia, il suo libro fu però protagonista di una singolare vicenda. La casa editrice Garzanti all’epoca ne aveva acquisito i diritti, lo fece tradurre ma non lo pubblicò mai (“Raccolto di dolore” sarebbe uscito soltanto nel 2004 grazie alla piccola e agguerrita Liberal Edizioni). Allora Garzanti era influenzata dalla “scuola fiorentina” che faceva capo a Giuliano Procacci. Il clima era quello in cui la slavistica ufficiale era stata “normalizzata”, nel senso di Praga, in cui Umberto Eco definiva Alexander Solgenitsin un Dostoevskij da strapazzo e i dissidenti invocavano quelle “libertà formali” che la sinistra non dimostrava di apprezzare molto. Un intellettuale comunista, Lombardo Radice, elogiava solo quegli scrittori censurati che non facevano “disperare Billancourt, che non toglievano, cioè, agli operai la fiducia nel comunismo”. La dittatura culturale c’è stata a Varsavia, Praga, Mosca e Budapest. In Italia ha prevalso una tranquillizzante abitudine alla reticenza. La rivista di Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone e Gustav Herling, Tempo presente, poteva uscire senza che nessuna censura glielo impedisse. Bastava farle il vuoto attorno, non parlarne mai. Chiuse dopo poco. Come i libri di Conquest.
La sorte di alcuni milioni di contadini russi fu decisa per sempre nella settimana tra il 10 e il 17 novembre 1929. Fu in quei giorni che il Plenum del Comitato centrale del Pcus decretò la “soluzione radicale” (sinistramente assonante con un’altra “soluzione”, questa come si sa “finale”) dei problemi dell’agricoltura sovietica. Fu la più gigantesca uccisione di esseri umani mai decretata da qualsiasi potete politico al di fuori di un evento bellico. In Italia alcuni testi di Conquest non sono mai stati tradotti. Non c’è il suo libro sulla polizia politica sovietica né quello su Kolyma, il primo tentativo di ricostruzione storica della realtà di un lager staliniano, fatto conoscere al pubblico occidentale ben prima che uscissero i memorabili “Racconti della Kolyma” di Varlam Salamov. Mai tradotto neppure il “Coraggio di un genio”, sull’affare Pasternak-Zivago e la persecuzione dello scrittore e poeta russo. Mai tradotto “Lenin”, dedicato a colui che Conquest riteneva il vero padre del terrore sovietico, poiché già nel 1918 proclamava la necessità di “ripulire la terra russa da tutti gli insetti dannosi” e definiva il terrore “un mezzo per convincere”.
Einaudi, Feltrinelli, Laterza, Garzanti, cioè le maggiori case editrici di cultura nel nostro paese, sono state solertissime nel fare il vuoto attorno a Conquest (Einaudi addirittura cestinò la prefazione di Gustav Herling ai “Racconti” di Salamov, che Primo Levi liquidò come superfluo). E lo si è visto anche nei giorni scorsi, nel silenzio che ha accolto la morte di Conquest.
Non è stato mai tradotto nemmeno il libro di Conquest sull’omocidio di Sergej Kirov, leader comunista di Leningrado, che segnò l’inizio della “ezovscina”, l’epoca di Ezov, il capo della polizia. In un inesorabile crescendo, milioni di persone morirono, o scomparvero, in una strage che raggiunse il suo folle parossismo tra il 1936 e il 1938. Uccidendo Kirov, Stalin eliminò un potenziale avversario e si assicurò un pretesto per distruggere non soltanto i suoi eventuali oppositori ma qualsiasi individuo, o gruppo, per quanto innocente. Il terrore calò sulla Russia. Conquest rivelò che sotto Stalin morirono anche duecento comunisti italiani, tra i quali Edmondo Peluso, uno degli eroi della rivolta di Canton, torturato. Arrestato pure il cognato di Togliatti, Paolo Robotti (“gli ruppero i denti e gli lesero incurabilmente la spina dorsale”, anche se poi fu rilasciato).
Conquest si diede allo studio dell’Unione sovietica negli metà degli anni Cinquanta mentre lavorava al Foreign Office britannico, in un ufficio semi-segreto responsabile della lotta contro la propaganda sovietica. “La sua intuizione storica è stata sorprendente”, ha detto al New York Times Norman M. Naimark, professore di Storia dell’Europa orientale presso la Stanford University. “Ha visto le cose con chiarezza, senza aver accesso agli archivi o a informazioni interne da parte del governo sovietico. Molti storici sovietici, che pure avevano a disposizione quel materiale, non sono arrivati alle stesse conclusioni. Conquest è stato innovativo, pionieristico”. E pensare che aveva iniziato la carriera come poeta, vincendo il premio Pen per la migliore poesia lunga scritta durante la Seconda guerra mondiale. Poesie divertenti, licenziose, liriche e satiriche. Scritte assieme a Kingsley Amis, il padre dello scrittore Martin Amis. Una vocazione letteraria che lo storico coltiverà anche come editor letterario dello Spectator.
I critici chiamavano Conquest “un rabbioso anticomunista”, invidiosi di quello che soltanto lui aveva saputo mettere assieme e portare alla luce. Lui è sempre rimasto in disparte anche dalla comunità accademica, disprezzando “la natura arcana e parrocchiale di certa letteratura accademica”, come ha dichiarato Mark Kramer, professore di Storia della Guerra fredda ad Harvard. Nella prefazione al suo “Raccolto di dolore”, Conquest ha osservato che “nelle azioni qui registrate circa venti vite umane sono state perse, non per ogni parola, ma per ogni lettera, in questo libro”. Indegno, purtroppo, per le miopi case editrici italiane.