Oltre lo schiaffo nucelare. La sinistra e gli ayatollah. Oggi tutti pazzi per l’accordo,
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trent’anni fa giornalisti e politici genuflessi di fronte a Khomeini. Il pensiero unico sull'Iran spiegato con le cronache dal 1979
di Giulio Meotti | 27 Luglio 2015 ore 10:23 Foglio
E’ un mistero che cosa di quell’imam abbia potuto attrarre la truppa di laiconi europei e scialbi liberal americani, libertini e materialisti, strutturalisti e femministe, esistenzialisti e teorici della rivoluzione sessuale, postmodernisti e borghesi moralisti, fino ai comunisti di ogni sorta. L’ayatollah Khomeini aveva definito la laicità come “l’opera di Satana” e gli ebrei (“che Dio li sprofondi”) come i nemici più pericolosi, ce l’aveva con la musica (“genera l’immoralità e la lussuria”), aveva regole anche per la buona creanza (modo di bere e di mangiare), ma anche su come soddisfare i più bassi bisogni sessuali. Diceva che i non musulmani, compresi i bambini impuberi, sono impuri “alla stessa stregua dell’urina, gli escrementi, lo sperma, le ossa, il sangue, il cane, il porco, il vino, la birra e il sudore del cammello”. Pensava persino che gli indumenti venuti a contatto prima della conversione col loro corpo sudato fossero impuri.
Eppure, trent’anni fa pezzi da novanta della cultura e della politica europea si genuflessero di fronte alla Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran. Questa loro prima infatuazione è in grado di spiegare la seconda, la rapidità con cui oggi praticamente tutto l’establishment occidentale, giornalistico e intellettuale, gioisce per l’accordo atomico siglato a Vienna fra le democrazie e gli eredi di Khomeini.
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Furono loro, gli intellettuali gauchisti e liberal d’occidente a fare dell’ayatollah Khomeini, esiliato dallo Scià, l’antagonista immacolato d’un imperatore accusato di rubare e uccidere e di stravolgere i connotati culturali d’un antico paese indoeuropeo. La sinistra lo immaginava nelle vesti del vendicatore, la sua barba come quella del Che, nell’atto di scacciare il monarca reazionario e filo-americano. Iniziarono allora i tempi della grande illusione occidentale, quando i gauchisti credevano ancora di poter dominare la locomotiva islamica. Il professor Djahr, docente di Linguistica a Parigi, in quei giorni proclamava ai giornalisti occidentali: “La rivoluzione iraniana è una presa di coscienza popolare dell’alienazione prodotta dal tipo di società capitalistica e dalla sua cultura”. Un messaggio davvero edificante.
Nel suo esilio parigino di Neauphle-le-Château, dalla villetta sulle colline a pochi chilometri dalla capitale francese, Khomeini venne vezzeggiato notte e giorno da giornalisti e intellettuali della gauche, la sinistra parigina. Tutti volevano toccare e parlare con il vecchio imam dagli occhi di brace. Per settimane, la villetta di Neauphle-le-Château e l’annesso tendone-moschea imbiancato di neve si trasformarono nel quartier generale della rivoluzione islamica e nel suo centro stampa internazionale. Tra una tazza di tè e un po’ di formaggio acido, una fetta di torrone di datteri e mandorle, i volonterosi seguaci dell’ayatollah cercavano di spiegare al resto del mondo le idee di Khomeini.
Cinque volte al giorno, Khomeini usciva dal suo ritiro, attraversava la strada, entrava nello chalet antistante per le preghiere. Lì eranto tutti uniti nel sogno di cacciare lo Scià e di costruire la nuova Repubblica islamica. Tutti cresciuti nelle analisi del marxista Maxime Rodinson sui rapporti tra islamismo e strutture economiche. Tutti ammaliati dal verbo sommesso di Khomeini, avvolto nel turbante nero e dallo sguardo che impressionava.
Andarono a trovarlo, estasiati, il filosofo Louis Rougier e lo storico della Rivoluzione francese Claude Manceron. Ma anche Roger Garaudy, filosofo comunista, poi cattolico e infine islamico. Senza considerare Vincent Monteil, ex attacché militare francese nella capitale iraniana, anche lui convertito all’islam. Rougier scrisse un saggio per paragonare Khomeini a Davide che trionfa su Golia.
A cadere nella vertigine khomeinista furono anche tanti ufficiali e studiosi americani. Andrew Young, l’ambasciatore presso le Nazioni Unite sotto l’Amministrazione Carter, disse che Khomeini era “un santo socialdemocratico” e paragonò la sua rivoluzione nel nome di Allah al movimento americano per i diritti civili. L’ambasciatore americano a Teheran, William Sullivan, accostò l’imam iraniano a Gandhi. Il consulente di Jimmy Carter, James Bill, scrisse ammirato che l’ayatollah “è un uomo di integrità”.
Richard Folk, giurista di Princeton e futuro inviato dell’Onu in medio oriente, guidò la missione americana in visita nel sobborgo di Parigi per incontrare Khomeini e si scaldò non poco al fuoco della sua rivoluzione: “Avendo creato un nuovo modello di rivoluzione popolare basato, in gran parte, su tattiche non violente, l’Iran può rappresentare per noi un modello, di cui avevamo disperatamente bisogno, di governo umanitario in un paese del Terzo mondo”. L’iranologo Richard Cottam sul Washington Post definì Khomeini “moderato e centrista”, un eremita che non era interessato al potere ma che una volta sconfitto lo Scià si sarebbe ritirato nella città santa di Qom. Ovviamente avvenne l’esatto contrario.
Come racconta Houchang Nahavandi, ex ministro dello Scià e autore del libro “Iran, the Clash of Ambitions”, “molti movimenti della sinistra europea inviarono le loro delegazioni alla conferenza internazionale tenutasi a Teheran a favore dell’operazione della presa di ostaggi del 4 novembre 1979”. Dalla Francia, il poeta Jean Genet, ignaro di cosa facevano i mullah iraniani agli omosessuali, espresse grande simpatia nei confronti di Khomeini perché questi aveva osato opporsi all’occidente. Il giornalista André Fontaine, direttore del Monde, paragonò Khomeini a Giovanni Paolo II in un articolo dal titolo “Il ritorno del divino”, mentre il filosofo Jacques Madaule, riferendosi al ruolo di Khomeini, scrisse sul Monde un articolo dal titolo “La voce del popolo” in cui si domandava se “il suo movimento non aprirà le porte del futuro dell’umanità”, definendo il khomeinismo come un “clamore dal profondo dei tempi” che rifiutava “la schiavitù”.
Michel Foucault, in celebri articoli sul Corriere della Sera e sul Nouvel Observateur, riuscì a elogiare l’impresa di Khomeini come “la prima grande insurrezione contro sistemi globali, la forma più moderna di rivolta”, definendo l’ayatollah “il sant’uomo esiliato a Parigi”. Ma Foucault non era il solo. Lo stesso Jean-Paul Sartre decise di andare di persona a Teheran per sostenere pubblicamente, con grande rinforzo di pubblicità, l’imam dallo sguardo allucinato.
Uno tra i più celebri inviati del Monde, Eric Rouleau, fu a dir poco infatuato di Khomeini. L’Humanité, organo dei comunisti francesi, definì l’imam “il Lenin islamico”. Il Partito socialista francese organizzò una manifestazione pubblica di sostegno a Khomeini il 23 gennaio 1979 presso la Maison de la Chimie. Lionel Jospin, lirico e mistico, citò in quell’occasione l’imam Ali: “Non essere né oppressore né oppresso. Devi essere il nemico di tutti gli oppressori e l’amico di tutti gli oppressi”. Il 14 febbraio 1979, i socialisti francesi salutarono la vittoria della rivoluzione islamica come “un movimento popolare senza precedenti nella storia”.
Allo scoppio della rivoluzione islamica, il velo femminile diventò il simbolo della resistenza al “dispotismo monarchico” e all’“imperialismo occidentale”. Dall’occidente partirono alla volta di Teheran numerose femministe, tra cui l’americana Kate Millett e da Parigi Simone de Beauvoir, che avrebbe presieduto un “Comitato Internazionale dei diritti delle donne”. Facevano parte della delegazione Claire Brière, Sylvie Caster, Catherine Clément, Martine Franck, Françoise Gaspard, Paula Jacques, Katia Kaupp, Michèle Le Mans, Gaëlle Montlahuc, Michele Perrain, Micheline Pelletier-Lattès, Alice Schwarzer, Martine Storti, Anne Tristan, Hélène Védrine. Occidentali che a Teheran gridavano il nome di Khomeini, e sembravano volutamente ignare di quel che pure avrebbero dovuto sapere. Avrebbero potuto intuire, come fece Oriana Fallaci, quello che di lì a poco sarebbe successo: non solo il chador obbligatorio, ma le innumerevoli lapidazioni pubbliche delle adultere, la perdita di qualsiasi diritto civile per le donne.
Sartre, intanto, andava dicendo: “Non ho alcuna religione, ma se ne dovessi avere una sarebbe quella di Shariati”. Alla Sorbona di Parigi studiava l’ideologo della rivoluzione iraniana, Ali Shariati, discepolo del neomarxista Georges Gurvitch. Shariati tradusse in farsi “I dannati della terra” di Fanon. Conquistato dalle idee marxiste, Shariati scrisse dell’islam in termini millenaristici: “Millequattrocento anni fa alcuni schiavi, venditori di datteri, cammellieri e operai seguivano la religione di Maometto. Oggi debbono essere i lavoratori, i contadini, i mercanti, i burocrati e gli studenti a farla rivivere”. Il padrino intellettuale della rivoluzione iraniana non inventò nulla, ma traspose a Teheran le idee dei suoi professori francesi, da Jacques Berque (di cui divenne assistente) e Sartre e Fanon. Ma soprattutto aveva studiato con l’orientalista e teologo cattoislamico Louis Massignon.
Lungo è l’elenco di chi impazzì per Khomeini, dai futuri premi Nobel per la Letteratura Gabriel García Márquez e Günter Grass ai comunisti italiani più o meno ortodossi, come Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, fino a Lotta Continua. Proprio il comunista Ingrao scrisse di Khomeini: “Guai se ci lasciamo abbagliare dai nostri pregiudizi e non ci accorgiamo che nella forma peculiare di quella esperienza si stanno lì affrontando questioni a noi non estranee: quale modello di sviluppo, se e come deve esplicarsi una funzione dei partiti, quale ruolo devono avere movimenti di massa e forme di democrazia diretta”.
Il direttore del giornale comunista Rinascita, Romano Ledda, annunciava estasiato che Khomeini aveva avviato “una nuova fase rivoluzionaria, quella delle rivoluzioni atipiche”. Il titolo che scelse fu gramsciano: “Rivoluzione contro il Capitale”. Nessuno prestò attenzione alle fucilazioni di omosessuali, alla repressione dei curdi e degli ebrei persiani, alle pene corporali inflitte agli “adulteri” e alla tortura degli intellettuali laici. Intanto, però, sul Manifesto Lidia Campagnano garantiva che sotto il regno dei turbanti sciiti ci sarebbe stata una grande ventata di liberazione delle donne, che non sarebbero state più trattate alla stregua di “prostitute dello scià”. Si odono echi sul chador.
Fu un’ubriacatura di miopia e di ideologia. Di lì a poco, dopo la partenza di corrispondenti e intellò da Teheran, Khomeini avrebbe imposto il velo a tutte le donne, assaltato l’ambasciata americana, iniziato le decapitazioni “corali”, lanciato un editto di morte senza precedenti contro uno scrittore occidentale (Salman Rushdie) e riportato il fanatismo nel cuore di quella Parigi che lo aveva così gentilmente ospitato.
Da allora, quanto silenzio della stessa sinistra europea per gli ebrei, bahai, zoroastriani, ismaeliti, curdi, armeni, arabi del Sud, che per anni sono stati perseguitati, torturati, assassinati nella più generale indifferenza internazionale. Neauphle-le-Château fu il primo, madornale errore dell’occidente e dei suoi intellettuali orientalisti. Fu lì, in un sobborgo di Parigi, che sorse “la capitale provvisoria della rivoluzione islamica”. Fu da lì che il vecchio imam riuscì a incendiare il mondo. Finita la sbornia rivoluzionaria, l’ayatollah si lasciò dietro una lunga catena di cadaveri.
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