Consigli pratici per superare in Europa la stupidità del 3 per cento
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Scambiare riforme strutturali con flessibilità tosta si può e la chiave è in un passaggio del piano Juncker
di Pierluigi Boda | 22 Luglio 2015 ore 19:45
Al direttore - Nel suo intervento sul Foglio di sabato scorso, il Presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, individua interventi utili ad affrontare la crisi del progetto europeo e a sostenere l'impegno riformatore del governo italiano. In particolare, ha scritto il governatore, occorre una maggiore flessibilità del patto di Stabilità e occorrono politiche sociali moderne e condivise che non possono che essere considerate decisive oggi per aprire una fase nuova. Diversi segnali suggeriscono che, nonostante le lacerazioni, un’iniziativa simile potrebbe inserirsi in uno scenario favorevole, o almeno non completamente avverso.
Quando il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha annunciato mercoledì scorso un piano per la crescita in Grecia finanziato con 35 miliardi di euro – tra fondi strutturali e agricoli – ha di fatto seppellito un altro elemento dell'armamentario allestito negli anni della crisi per accontentare i falchi dell'austerità. Si tratta della regola per cui la Commissione può ottenere il congelamento dei fondi strutturali assegnati a un paese – e alle sue regioni – se questo non rispetta i suoi obblighi in materia di risanamento del debito pubblico. La norma passò tra lo sdegno di sindaci e governatori di mezza Europa, che la consideravano iniqua e inapplicabile. Alla prima verifica sul campo, il principio ha mostrato la sua assurdità e sarebbe stato molto difficile trovare a Bruxelles o nelle capitali virtuose qualcuno disposto ad annunciare ai greci che l'unico vero strumento europeo al servizio della crescita e dell'occupazione veniva congelato in attesa di maggiore chiarezza sui bilanci.
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Questo passaggio apparentemente tecnico si inserisce in un cambiamento di rotta cominciato a fine 2014 con l'annuncio del famoso piano Juncker – la creatura prediletta dell'esecutivo di Bruxelles che promette di mobilitare 350 miliardi di investimenti privati con una garanzia di sedici miliardi di euro provenienti dal bilancio dell’Unione europea. Il nuovo corso è proseguito, a gennaio 2015, con la pubblicazione di una comunicazione della Commissione che chiarisce come applicare i "margini di flessibilità esistenti nel patto di Stabilità" per liberare investimenti. Fino a quel momento i margini erano "esistenti" ma molto vaghi e complicati. Un'ambiguità apprezzata soprattutto dai custodi del rigore, che potevano così avvallare qualche compromesso evitando scelte troppo nette, come l'invocata esclusione dal Patto di Stabilità del finanziamento nazionale e regionale di progetti sostenuti dai fondi strutturali dell'Unione europea. Ora sappiamo invece che i paesi impegnati a riformare welfare ed economia sono autorizzati a deviare temporaneamente dal percorso di rientro concordato con Bruxelles e che quella deviazione, in diversi casi, riguarda proprio il co-finanziamento dei fondi strutturali. Non solo, ma per incoraggiare i contributi degli stati membri al piano Juncker, la Commissione prevede la loro sostanziale – non temporanea – neutralizzazione ai fini del patto. In ballo ci sono risorse limitate ma, al di là della prudenza degli annunci, si stabilisce un precedente clamoroso: la "stupidità" del 3 per cento può essere superata per favorire interventi strategici. E se questo oggi vale per un piano su cui Commissione punta moltissimo, domani potrebbe riguardare altre iniziative.
In questo quadro, le proposte italiane di scambiare progressi sulle riforme con maggiore flessibilità del patto e di allestire politiche sociali innovative – come lo schema di assicurazione universale per la disoccupazione, evocato dal presidente Rossi – escono finalmente dalla categoria del "rivendicazionismo meridionale" e diventano opzioni strategiche da considerare con rispetto.
Il dibattito avviato dal Foglio assume così una rilevanza inedita. Da un lato contribuisce a un confronto nazionale che ha finalmente concentrato l'attenzione del Paese sulle riforme, dall'altro si collega a questioni destinate a imporsi in nell'agenda europea tra crisi, referendum e tentativi coraggiosi ma dalla sorte ancora incerta, come quello del presidente Juncker sull'immigrazione.
Pierluigi Boda è portavoce del comitato europeo delle regioni