Schumer, il falco imbarazzato che ha in mano il destino dell’accordo con l’Iran
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Il senatore di New York è uno degli uomini più potenti e temuti di Washington. E l’accordo con l’Iran lo ha gettato in un profondo imbarazzo
di Mattia Ferraresi | 17 Luglio 2015 ore 06:18 Foglio
New York. Barack Obama ha siglato l’accordo nucleare con gli avversari di Teheran, ora deve farlo approvare dagli amici di Washington. Non è faccenda che si sbriga con un paio di partite di golf. I numeri per far passare l’accordo al Congresso nei prossimi sessanta giorni e per difendersi da un eventuale assalto al veto presidenziale i democratici li hanno virtualmente in tasca, si tratta di stimare qual è il prezzo politico adeguato per ottenere la benedizione del ramo legislativo, soprattutto di quel gruppo di falchi democratici stretto fra la protezione marziale di Israele e gli ordini del partito. Stringendo il cerchio, il problema si chiama Chuck Schumer.
Il senatore di New York, e leader democratico dopo che Harry Reid ha detto che non si ricandiderà, è uno degli uomini più potenti e temuti di Washington. Non mettersi contro di lui è una delle prime regole che i giovani politici imparano dopo essere sbarcati nella capitale. Gli aneddoti che lo riguardano sono secondi per colorito e timore che suscitano soltanto a quelli intorno a Rahm Emanuel, macchina da guerra politica che faceva recapitare pesci marci ai finanziatori che avevano ritoccato al ribasso le loro donazioni. Uno che ha aggredito, verbalmente s’intende, un collega sotto la doccia negli spogliatoi del Congresso, senza nemmeno l’asciugamano. Questo genere di cose. Ecco, Schumer è uno di quelli che può alzare il telefono e dire a Rahm: “Se non ritiri quella dichiarazione vi distruggerò pubblicamente”. Il plurale includeva anche Obama, e si riferiva alla presa di posizione dell’Amministrazione sulla proliferazione degli insediamenti israeliani nelle colonie. La difesa di Israele per lui val bene una sfuriata contro il presidente e il suo tignoso capo di gabinetto. Schumer lo dice a ogni pie’ sospinto: mi chiamo Schumer, significa guardiano di Israele. Non c’è altra questione che definisce più in profondità il sentire e l’agire politico di questo figlio di un disinfestatore cresciuto nelle parti umili di Brooklyn, cuore pulsante della diaspora. A Brooklyn c’è ancora il suo elettorato di riferimento, quello che lo ha portato a 23 anni, fresco di laurea ad Harvard, al Congresso dello stato, a 29 a quello di Washington. Nella perpetua e ossessiva coltivazione della sua immagine sui media non manca mai di ribadire il suo legame inscindibile con Israele. Perciò l’accordo con l’Iran lo ha gettato in un profondo imbarazzo.
Nella girandola delle reazioni dopo la firma, tutta la capitale aspettava soltanto la sua dichiarazione. E’ arrivata con comprensibile ritardo, ed era il saggio definitivo delle sue doti di acrobata: “Nei prossimi giorni intendo passare l’accordo con un pettine a denti stretti, voglio parlare con i funzionari dell’Amministrazione e sentire il parere degli esperti di tutte le parti politiche. Ho sostenuto la legge che assicurava al Congresso il tempo per rivedere l’accordo, e ora dobbiamo usarlo bene. Sostenere o respingere questo accordo non è una decisione che si può prendere alla leggera, e voglio studiare attentamente il testo prima di prendere una decisone informata”. Una “decisione informata” di Schumer in linea con Obama chiuderebbe anzitempo qualunque discussione sui numeri al Congresso, mettendo il deal al riparo non solo dall’assalto repubblicano ma anche dalla lotta interna ai democratici, quella che preoccupa di più un presidente che non vuole sessanta giorni di guerriglia colpo su colpo. Joe Biden ha già preso a fare le sue persuasive telefonate e le visite sorridenti agli ex colleghi del Congresso. Alla Camera Nancy Pelosi è l’affidabile garante della linea, mentre non ha senso parlare delle manovre del Senato senza sapere cosa farà Schumer. Le posizioni del senatore sono sempre sovrapponibili con quelli di Bibi Netanyahu e dell’Aipac, l’associazione più importante nella galassia della lobby pro Israele in America. Ora entrambi sono duramente contrari all’accordo nucleare. A Washington soltanto i moderati – e per alcuni traditori – di J Street sostengono la linea del presidente, e Schumer non ama quel gruppo di pressione. La strategia dei democratici consiste nel convincere Schumer a votare a favore, facendo leva sulla lealtà democratica e certamente aggiungendo qualcosa per rendere più appetibile lo scambio. Il maestro di calcoli di rado si muove senza una contropartita. Ogni cosa per lui è un’occasione di guadagno in termini di potere e visibilità. Il fatto è che anche la strategia dei repubblicani è quella di convincere Schumer. Da mesi l’associazione Secure America Now di Mike Huckabee, John Bolton e conservatori filoisraeliani assortiti manda a ciclo continuo spot in cui mette nell’angolo Schumer, inchiodandolo alle sue contraddizioni. Il senatore può essere lo Spartaco di una rivolta dei falchi, e magari i conservatori i numeri non li troveranno lo stesso per aggirare il veto di Obama, ma intanto il presidente avrà consumato energie e perso grosse dosi di credibilità nel percorso; Netanyahu e i suoi fedeli amici a Washington apprezzeranno l’impegno.
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