Complotti di famiglia. Come si diventa jihadisti in Italia. Il corteggiamento islamista,
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le pressioni psicologiche, il racket degli albanesi, la disperazione sociale e il paradiso (molto terreno) promesso da Allah. Radiografia di un fenomeno non isolato
di Cristina Giudici | 01 Luglio 2015 ore 18:18 Foglio
Stamane in un blitz antiterrorismo sono stati arrestati cinque aspiranti jihadisti dell’Is. Sono inoltre state emesse dieci ordinanze di custodia cautelare per terrorismo. A tutti gli indagati è stato contestato l’articolo 270 quater del Codice penale, che punisce chi organizza la partenza di combattenti con finalità terroristiche, come previsto dal decreto legge antiterrorismo approvato lo scorso aprile. Fra loro, ci sono tre italiani convertiti all’islam. E’ una storia paradigmatica quella che riguarda i tre membri della famiglia Sergio, arrestati stamane a Inzago, bassa bergamasca, a venti chilometri da Milano. Fermati prima che partissero per le terre del Califfato per raggiungere la figlia, Maria Giulia, fuggita in Siria nel settembre del 2014. Il blitz antiterrorismo condotto dalla Digos milanese e coordinato dal procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, ha fatto emergere uno spaccato di vita poco raccontato dai giornali, ma ben noto da tempo alle forse di intelligence: ovvero cosa può accadere a una famiglia, non bene integrata nel suo contesto sociale, quando viene intercettata dagli islamisti. E poi manipolata dai reclutatori, un clan di albanesi nel caso, che da mesi faceva pressione perché accettassero di compiere il loro dovere e diventassero – tutti – dei mujaheddin.
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I Sergio provengono dalla periferia napoletana. Trapiantati nella periferia della provincia di Milano, avevano problemi economici e vedevano nell’Is una possibilità di redenzione sociale, ma anche un’opportunità per ottenere garanzie: casa, reddito, protezione. La catena che ha convertito un’intera famiglia italiana alla guerra santa è stata avviata da Maria Giulia Sergio, che prima del settembre scorso era sconosciuta agli investigatori. Di lei si sapeva solo che nel 2011 aveva firmato un appello rivolto al senatore a vita Carlo Azeglio Ciampi contro una legge proposta durante l’ultimo governo Berlusconi per vietare il velo integrale. La giovane, prima cattolica praticante, come succede a molte italiane convertite si era avvicinata all’islam per curiosità, o perché in cerca di un senso più compiuto da dare alla propria vita. Solo più tardi si era radicalizzata, con un percorso fai-da-te. Anche se la fase finale, quella che l’ha avvicinata all’Is è dovuta all’intervento, secondo le ricostruzioni, di una cittadina canadese di origine siriana che aveva vissuto a Bologna e si era poi trasferita in Arabia Saudita, dove è diventata propagandista dell’Is con il compito di reclutare e indottrinare italiani. Fatima, questo è ora il nome di Giulia “tornata” all’islam, ha sposato un albanese, Aldo Kobuzi, nella moschea di Treviglio (Bergamo) nel settembre scorso e poi è partita da Roma con un aereo diretto a Istanbul. Dalla capitale turca, dopo aver attraversato il confine, ha raggiunto la Siria per unirsi ai guerriglieri dello Stato islamico, firmando un sodalizio con un clan albanese, attivo fra la Toscana e l’Albania, che recluta “foreign fighters” da portare in Siria. Dalle intercettazioni ascoltate dagli investigatori emerge il modus operandi dei reclutatori, che prima di votarsi al business della guerra santa spesso sono criminali di piccolo cabotaggio. Dalla Siria, per mesi, fanno pressioni sulla famiglia Sergio, socialmente fragile, attraverso la figlia Maria Giulia alias Fatima. Ricordano loro continuamente il dovere dei musulmani di combattere gli infedeli, ma fanno anche leva sulle frustrazioni di carattere economico. Fatima è arrivata nello Stato islamico assieme alla suocera albanese, Donika Coku, e alla cognata, una giovane di 19 anni sposata anche lei a un mujaheddin nel settembre scorso. Aldo, che ora si chiama Said, è andato in un campo di addestramento e sostiene la famiglia grazie al bottino di guerra arraffato durante i combattimenti. Fatima, al telefono con la sorella Marianna, anche lei convertita al fanatismo jihadista, confida il suo desiderio di diventare una martire. Sua sorella Marianna si emoziona quando sente parlare della guerra santa, i genitori invece esitano. Sono perplessi, finché cedono. Il padre si licenzia e pensa di usare i soldi della liquidazione per il viaggio della famiglia verso la Siria. Stamattina sono stati salvati dalla loro follia grazie a un blitz antiterrorismo, che li ha portati in carcere.
Fin qui più o meno la cronaca che riguarda una famiglia, probabilmente più disperata che consapevole. Un dimostrazione di ciò che può fare il proselitismo jihadista nel cuore produttivo della Lombardia. Nessuno di loro ha in mente di fare attentati in Italia o in Europa. L’obiettivo è solo quello di lasciare una società “empia”, dove è difficile stare a galla, per unirsi alla comunità dei mujaheddin che promettono, oltre al paradiso per i martiri, anche certezze terrene. Ma dietro questa storia ci sono numerose famiglie, immigrate in Italia, di origine araba o albanese, dilaniate al loro interno. Dove ci sono aspiranti shahid, martiri, per lo più giovani disorientati o disadattati, talvolta invece perfettamente integrati nel loro tessuto sociale, che sognano di raggiungere le terre del Califfato. Per fanatismo religioso, certo, ma anche per l’illusione di sottrarsi alle incertezze della società aperta che costituisce il nostro modello occidentale. Per ora i numeri sono bassi, ma il proselitismo praticato sul web continua a trovare nuovi adepti, è un fenomeno monitorato da tempo. E dietro le mura domestiche nuovi jihadisti pro Is crescono.
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