Così la Germania ha occupato la Commissione europea, Nomi in ascesa, numeri e pettegolezzi su chi comanda davvero a Bruxelles.
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Le strategie per limitare il potere dei burocrati. Un rimpasto per sancire il soft power della cancelliera
di David Carretta | 18 Giugno 2015 ore 06:18 Foglio
C’era una volta Catherine Day, il potente segretario generale della Commissione europea presieduta da José Manuel Barroso, che era riuscita a centralizzare tutti i processi decisionali e diventare un filtro essenziale degli interessi nazionali, con una particolare attenzione alla Germania. E ci sarà ancora per un po’, complice Angela Merkel, che ha apprezzato il lavoro di Day nei difficili anni Barroso, dal “no” francese al trattato costituzionale nel 2005 alla crisi della zona euro nel triennio 2010-2012. Ma, con l’arrivo alla presidenza di Jean-Claude Juncker, il deus ex machina dell’esecutivo comunitario ha cambiato nome, anche se – complice ancora una volta la cancelliera tedesca – rimane un merkeliano doc. Martin Selmayr, il capo-gabinetto del presidente della Commissione, non è solo il fedele braccio destro di Juncker che ha scommesso sulla fragile candidatura dell’ex premier lussemburghese molto prima della sua designazione ufficiale, accettando di guidare la macchina della sua campagna durante le elezioni europee del 2014. Dal luglio dello scorso anno, quando Juncker è stato nominato dai capi di stato e di governo per succedere a Barroso, Selmayr è diventato il “presidente ombra” della Commissione che Juncker vorrebbe “politica” per toglierla dalle grinfie dei “burocrati”. Anzi, forse qualcosa in più di un presidente: Selmayr è rullo compressore, da cui transitano tutte le decisioni, coinvolto in tutte le trattative, che tutto può e a cui tutto è permesso. Un iper-eurocrate, ma politico. Sarà lui a pilotare l’atto fondatore della nuova burocrazia comunitaria: il grande rimpasto ai vertici delle direzioni generali atteso tra pochi giorni. E’ il gioco delle sedie musicali dei Grand Commis della Commissione che riflette il peso specifico di singoli funzionari, come dei singoli governi. E che dovrebbe permettere all’esecutivo Juncker di mettersi finalmente in moto sul piano legislativo, dopo oltre duecento giorni di grandi promesse e agende strategiche, ma poche proposte di direttive e regolamenti. L’esito del rimpasto dentro la Commissione dovrebbe soprattutto confermare la strategia della Germania del “leading from behind in the Eu”: riluttante a impegnarsi in prima fila, Berlino governa l’Ue dietro le quinte della politica.
La filosofia di fondo del grande “reshuffle” di Juncker ha un che di renziano: è necessario mettere fine allo strapotere dei burocrati. Il presidente della Commissione è terrorizzato dall’idea di scoprire un giorno dai giornali che la sua istituzione ha proposto in un regolamento di vietare le oliere nei ristoranti o di stabilire con una direttiva la curvatura necessaria a una banana per essere chiamata banana. “I politici, cioè i commissari, devono essere pienamente responsabili e informati di tutte le attività delle direzioni generali loro sottoposte”, spiega al Foglio una fonte vicina al presidente della Commissione. “I processi dal basso verso l’alto devono finire”. In altre parole, saranno i commissari a dare ordini ai burocrati, e non l’inverso. La fonte racconta un episodio: “durante le riunioni del collegio, Juncker spesso interrompe i commissari che leggono un testo già preparato in anticipo, chiede chi lo ha scritto, protesta e pretende che dicano cosa ne pensano loro, i politici, non i funzionari di una direzione generale”. Per la grande amministrazione della Commissione è stato un “primo shock”. Il “secondo shock – secondo la fonte – è il metodo del rimpasto: non sarà più come in passato “un piccolo affare tra amici, che si conoscono da anni e che si promuovono a vicenda”. Ciascun commissario ha inviato in busta chiusa tre nomi per ogni posto di direttore generale da attribuire. I criteri privilegiati sono “la competenza e la qualità del lavoro”. Juncker ha intenzione di nominare più donne. Una discussione è in corso tra i sette vicepresidenti. Ma “la decisione finale spetterà a Juncker”, dice la fonte. In altre parole, ci sarà lo zampino di Selmayr, che finora ha proceduto a uno spoil system all’americana per disfarsi degli uomini di Barroso, salvo fermarsi davanti alla donna Catherine Day.
Un bambino sventola una bandiera europea davanti alla sede della Commissione, a Bruxelles
“Juncker ha offerto a Day di restare”, perché “è soddisfatto del suo lavoro e ha apprezzato la sua lealtà”, spiegano nell’entourage del presidente della Commissione. In realtà, la storia è meno idilliaca di quanto venga descritta nella versione semiufficiale. L’irlandese Day è il prodotto tipico della burocrazia comunitaria. Arrivata alla Commissione nel giugno 1979, era riuscita a scalare rapidamente i gradini dell’amministrazione, lavorando nei gabinetti di tre commissari – Richard Burk, Peter Sutherland e Leon Brittan – dal 1982 al 1996, prima di entrare nel club ristretto di direttori generali e vice. Fino al 2005, quando José Manuel Barroso, su impulso dei britannici, la scelse come segretario generale della Commissione, dandole l’incarico di centralizzare i processi politici e limitare la libertà di manovra di commissari e singole direzioni generali. “Durante gli anni Barroso, ogni cosa doveva passare da Catherine”, ricorda un alto funzionario, convinto come altri che, con l’arrivo della coppia Juncker-Selmayr, Day sarebbe stata rapidamente epurata. Invece, resterà almeno per un altro anno.
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Dopo dieci anni alla testa del segretariato generale, raggiunti i limiti di tempo consentiti dai regolamenti interni e dalle consuetudini comunitarie, Day se ne sarebbe dovuta andare, a meno che non lo richieda “l’interesse del servizio” (una formula oscura che giustifica la totale libertà nella gestione di singoli funzionari). Nei corridoi del Berlaumont – il principale palazzo della Commissione – si evocava il suo pensionamento e l’avvio di una brillante carriera accademica. Già circolavano i nomi di potenziali successori: il rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea, Stefano Sannino, il direttore generale per la concorrenza, l’olandese Alexander Italianer, e il direttore generale per i servizi finanziari, il britannico Jonathan Faull. Poi Juncker si è accorto che per garantire il successo della discontinuità politica con Barroso era necessaria la continuità della macchina burocratica. Al contempo, Merkel ha esercitato con discrezione la sua influenza, convincendo la coppia Juncker-Selmayr a tenere l’indispensabile Catherine. Merkel e Day “hanno stretto un legame forte durante i loro dieci anni al potere a Berlino e Bruxelles”, dice un’altra fonte. Una relazione che si è consolidata anche attraverso Uwe Corsepius, ex sherpa della cancelliera, diventato segretario generale del Consiglio dell’Ue – l’istituzione che riunisce i governi – e che sta per tornare a Berlino come principale consigliere per gli affari europei della cancelliera.
Inizialmente, la conferma di Day è stata difficile da digerire per l’ambizioso Selmayr, che nel frattempo è riuscito a svuotare alcune stanze dell’euro-potere degli anni Barroso. Poi, è prevalsa la cooperazione e la divisione dei compiti: a Day la gestione dell’apparato (il controllo della burocrazia), a Selmayr le questioni politiche (il controllo sui commissari e i loro gabinetti). Del resto, i due condividono i buoni rapporti con la cancelliera Merkel. Nato a Bonn 45 anni fa, professore universitario a trenta, con un passato alla Bce e al colosso editoriale tedesco Bertelsmann, Selmayr è molto vicino alla Cdu tedesca. Nel marzo 2014, si era convinto ad affiancare Juncker come capo della sua campagna elettorale come capofila del Partito Popolare Europeo (Ppe), solo dopo che l’ex primo ministro lussemburghese aveva ricevuto l’endorsement (anche se controvoglia) della cancelliera. Prima, Selmayr era stato il portavoce e il capogabinetto di un’altra lussemburghese del Ppe, l’ex commissaria Viviane Reding, che si è dimostrata particolarmente attenta a alcuni interessi e prese di posizioni dei tedeschi (dalla battaglia europea contro Google, alle critiche per le derive autoritarie del primo ministro ungherese, Viktor Orbán, passando per la protezione dei dati personali dallo spionaggio della Nsa americana).
Catherine Day, ex segretario generale della Commissione Barroso, e Martin Selmayr, attuale segretario generale, al fianco di Juncker
Selmayr è un europeista convinto. E’ capace di lavorare 24 ore su 24. Dice di ricevere almeno 800 mail al giorno. Juncker gli ha affidato le missioni più delicate, come gestire i rapporti con le capitali sulla crisi in Grecia, il dossier immigrazione o l’evoluzione futura dell’unione economica e monetaria. E’ toccato a Selmayr condurre “l’ultimo tentativo” di Juncker per convincere il governo di Alexis Tsipras a un compromesso per salvare Atene dal default e a decretare falliti i negoziati di domenica. Ma la sua irruenza e la sua vicinanza alla Germania hanno creato diverse polemiche e qualche protesta da parte di alcuni commissari. All’inizio del mandato Juncker, la mano del suo capogabinetto ha provocato un grave incidente durante l’audizione davanti all’Europarlamento della commissaria designata al Commercio, Cecilia Malmström, incaricata di negoziare il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti. Una deputata olandese, Marietje Schaake, aveva svelato che nel testo di risposte scritte inviate all’Europarlamento da Malmström era stata aggiunta una frase senza il consenso della commissaria: “I meccanismi per risolvere le dispute tra investitore e Stato (Isds) non saranno parte dell’accordo” con l’America. In realtà, la liberale Malmström non era contraria agli arbitrati internazionali: in un tweet aveva negato di essere l’autrice della frase, mentre i “track changes” del testo originale indicavano in Selmayr l’autore delle modifiche nella direzione voluta da Berlino in campagna contro le clausole Isds. Anche nella composizione della Commissione Juncker, gli equilibri auspicati dalla Germania sono stati mantenuti. Il commissario agli Affari economici, il socialista francese Pierre Moscovici, è stato messo sotto la tutela di un falco: il vicepresidente per l’Euro, Valdis Dombrovskis. Al britannico Jonathan Hill, responsabile per i Servizi finanziari, è stata tolta la competenza sui bonus dei banchieri, che Merkel vuole abolire. Le case farmaceutiche tedesche sono soddisfatte che i controlli sui medicinali siano stati trasferiti dalla direzione generale “Sicurezza dei consumatori” a quella “Industria”. Il tedesco Günther Oettinger ha ottenuto il portafoglio a cui la cancelliera aveva puntato da tempo: l’Economia digitale per proteggere gli editori e l’industria tedesca dalla minaccia dei colossi americani di internet.
L’esempio più lampante del “metodo Selmayr” è il trattamento che ha riservato, appena insediatosi a Berlaymont, al servizio dei portavoce dell’èra Barroso. Tutti i funzionari che avevano parlato a nome della precedente Commissione – o quasi – sono stati invitati o costretti a farsi da parte, per lasciare il posto a una squadra completamente nuova, composta da funzionari di lungo corso ed ex giornalisti, e capitanata da un ex europarlamentare del Ppe e da due fedelissime del capogabinetto di Juncker. Il greco Margaritis Schinas, storico funzionario della Commissione, transitato all’Europarlamento tra il 2007 e il 2009 come deputato di Nea Demokratia, è stato affiancato da Mina Andreeva e Natasha Bertaud, due donne che hanno lavorato con Selmayr nel gabinetto Reding e che si prendono cura di Juncker nei minimi dettagli. L’obiettivo – aveva spiegato Schinas – era avere una comunicazione “più politica” dell’attività della Commissione. Ma non è cambiato molto in termini di sostanza. “Dentro la sala stampa, nel briefing quotidiano di mezzogiorno, continuiamo a sentire gli stessi no comment, anche se con un accento diverso”, ironizza un giornalista.
Il “metodo Selmayr” ora potrebbe essere applicato anche nel grande rimpasto delle direzioni generali, salvo per alcune “stelle” della burocrazia europea di cui difficilmente Juncker potrà fare a meno. I nomi sono sconosciuti al grande pubblico, ma alcuni di loro sono stati i protagonisti della costruzione comunitaria e delle grandi decisioni degli ultimi anni. Primo tra tutti Jonathan Faull, britannico che ha studiato al Collegio d’Europa a Bruges, per poi entrare alla Commissione dove è stato – tra le altre cose – portavoce di Romano Prodi, membro di diversi gabinetti, e direttore generale alla Giustizia e ai Servizi finanziari. Faull è uno degli architetti dell’unione bancaria, insieme a un’altra stella in ascesa: la spagnola Nadia Calviño, che da poco è stata nominata direttore generale per il Bilancio, ma che potrebbe finire in un posto più prestigioso. Il britannico è candidato a sostituire l’olandese Alexander Italianer, da cinque anni alla testa della Direzione Generale Concorrenza, considerato un peso massimo, che dovrebbe essere nominato a un altro incarico di prestigio e potere. Una promozione dovrebbe spettare anche al britannico Robert Madelin che ha la responsabilità di Telecomunicazioni e tecnologie e sul suo account Twitter, dove ha più di 8 mila follower, si presenta come un “brit globalist”. Per contro sono incerti i destini di Marco Buti, l’italiano che guida la direzione generale Economia e Finanza dal 2008, eseguendo alla lettera la dottrina dell’austerità nei momenti più gravi della crisi della zona euro, salvo convertirsi alla “flessibilità” di bilancio con l’arrivo di Juncker. In bilico è anche il francese Jean-Luc Demarty, dal 2011 direttore generale al Commercio internazionale, un posto estremamente sensibile nel momento in cui la Commissione negozia il trattato di libero scambio con l’America. Anche lo spagnolo Luis Romero Requena, direttore generale del potente Servizio Giuridico, dovrebbe fare le valigie.
Nel corso degli anni, alcune direzioni generali, pur gestendo miliardi di euro l’anno, hanno perso visibilità e soprattutto peso politico. Vale per il Mercato interno (affidata allo spagnolo Daniel Calleja Crespo), lo Sviluppo e la Cooperazione internazionale (in mano al portoghese Fernando Frutuoso de Melo) o l’Agricoltura (il polacco Jerzy Bogdan Plewa gestisce un terzo del bilancio comunitario). L’equilibrio che deve trovare Juncker nel rimpasto non è solo di genere. Devono essere compensati e ricompensati stati grandi e piccoli, vecchi e nuovi, del sud e del nord. Il numero di direttori generali misura l’influenza di un paese. E la classifica dei funzionari europei più alti in grado è chiara dentro la Commissione: 5 per la Germania, 4 per Regno Unito e Spagna, 3 per Francia e Belgio, 2 per Italia, Olanda, Portogallo, Grecia, Austria, 1 ciascuno per Danimarca, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Polonia e Svezia. Berlino, contrariamente ad altri paesi, ha saputo piazzare i suoi uomini al posto giusto a seconda delle sue priorità politiche. Karl-Friedrich Falkenberg alla direzione generale Ambiente quando Merkel spingeva per le rinnovabili. Matthias Ruete all’Immigrazione e agli Affari interni nel momento in cui la cancelliera suggerisce di rivedere le regole di Dublino sui richiedenti asilo.
Con la volontà di rendere la Commissione più “politica” si sta tuttavia rafforzando un’altra tendenza: il ruolo sempre più importante che giocano i capigabinetto dei singoli commissari rispetto ai direttori generali. Tocca a loro preparare l’agenda e le decisioni del collegio, in una riunione ogni lunedì, durante la quale avvengono le mediazioni più sensibili. Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera e vicepresidente della Commissione, ha scelto un funzionario di lungo corso, Stefano Manservisi, che conosce tutti i meandri dell’esecutivo comunitario, dopo aver diretto il gabinetto di Prodi ed essere stato alla testa della direzione generale Affari interni. E’ lui che si è fatto portatore – con un certo successo – delle istanze renziane negli incontri tecnici decisivi sulla flessibilità di bilancio, il piano di investimenti o le quote per i richiedenti asilo. Il più potente dopo Selmayr è Ben Smulders, capogabinetto del primo vicepresidente della Commissione, l’olandese Frans Timmermans, che ha il diritto di veto su ogni singola iniziativa dell’esecutivo comunitario. Uno dei più brillanti è il francese Olivier Bailly, che sostiene il lavoro di Moscovici. Ma anche in questo caso la forza paese si misura con i numeri. La Germania ha 4 capigabinetto (e 5 vice), il Regno Unito 3 (e 3 vice), la Spagna 2 (e 2 vice), mentre Francia e Italia sono fermi a 1 ciascuno (con rispettivamente 5 e 4 vice).
Tutti gli “sherpa” della Commissione Ue. Al centro c’è Martin Selmayr, capogabinetto di Juncker
La mappa del potere dei Grand Commis dell’Ue non è completa senza le altre istituzioni. Il segretario generale del Consiglio dei ministri dell’Ue è “un posto altamente strategico perché permette di controllare l’agenda istituzionale, ma anche di pesare sui compromessi tra gli stati membri”, ha spiegato in uno studio Charles de Marcilly della Fondazione Robert Schuman. E, negli ultimi quattro anni, a orchestrare le trattative tra i governi è stato il discretissimo Uwe Corsepius, l’ex sherpa di Merkel che la cancelliera ha appena richiamato a Berlino. La carriera di Corsepius è quella di un perfetto funzionario al servizio della Repubblica Federale: ha lavorato alla cancelleria con Helmut Kohl e Gerhard Schröder, prima di diventare l’uomo di fiducia di Merkel sulle questioni europee negli anni delle crisi esistenziali (dalla bocciatura del trattato costituzionale in Francia e i primi salvataggi dell’euro). Dal Justius Lipsius – il nome del palazzo del Consiglio – Corsepius ha coordinato i dossier più scottanti, come la creazione del fondo salva stati Esm o la politica delle sanzioni contro la Russia. Mosca lo ha inserito nella sua lista nera dei responsabili europei che non possono entrare nel suo territorio in rappresaglia alle misure restrittive imposte dall’Ue. Dal 1° luglio, Corsepius lascerà il suo incarico al danese Jeppe Tranholm-Mikkelsen, diplomatico di lungo corso, la cui nomina è stata considerata come una compensazione per la Danimarca, dopo che la premier Helle Thorning-Schmidt lo scorso anno ha visto sfumare le sue speranze di diventare presidente del Consiglio europeo.
A dominare la macchina burocratica dell’Europarlamento da oltre sei anni è Klaus Welle, un altro alto funzionario tedesco espressione della Cdu di Merkel. Con Corsepius al Consiglio, ha pilotato con discrezione il processo legislativo, nel quale l’Europarlamento ha assunto nuovi poteri con il trattato di Lisbona. “Se c’è un problema, Merkel chiama lui”, racconta un deputato del Partito popolare europeo. Contestato per l’eccessivo attivismo rispetto ai suoi predecessori, Welle “sembra inamovibile”, spiega al Foglio un altro deputato, ma della famiglia politica opposta, i Socialisti & Democratici. Il presidente dell’Europarlamento, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, vorrebbe pensionarlo (con l’obiettivo di piazzare il suo capogabinetto Markus Winkler), ma ogni suo tentativo si è rivelato vano. “Welle resterà ancora qualche anno”, dice il deputato socialista, descrivendo il segretario generale come “abile, intelligente e furbo. Dentro la Maison Europarlamento nulla si muove se lui non dà il via libera”. Welle conserva un’enorme influenza anche dentro al gruppo del Partito popolare europeo, di cui è stato segretario generale negli anni dell’apertura a Forza Italia e ai conservatori britannici.
La diplomazia europea, per contro, appare un dominio riservato ai funzionari del Quai d’Orsay. Dopo cinque anni con Pierre Vimont segretario generale del Servizio di azione esterna sotto la direzione politica della britannica Catherine Ashton, Federica Mogherini ha scelto l’ex ambasciatore francese a Roma, Alain Le Roy, come suo successore. Alcuni osservatori sostengono che sia un modo per bilanciare la perdita di influenza della Francia dentro la Commissione e l’Europarlamento. Per Parigi, avere il controllo della diplomazia europea è comunque strategico, nel momento in cui i soldati francesi sono impegnati in diverse operazioni (dal Mali ai bombardamenti in Iraq contro lo Stato Islamico) e il ministro degli Esteri Laurent Fabius fa la voce grossa con l’Iran. Forte della sua esperienza all’Onu come capo del Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace, Le Roy sarà utile all’Alto Rappresentante per la missione militare che sta cercando di promuovere sulle coste della Libia per bloccare il traffico di migranti. Ma Merkel è riuscita a piazzare la tedesca Helga Schmid come vicesegretario generale e direttore politico del Servizio di azione esterna. E’ lei che guida i negoziati tecnici con la Repubblica islamica sul programma nucleare iraniano. In aprile, Schmid è stata il primo alto funzionario dell’Ue a recarsi a Mosca per tentare una normalizzazione dei rapporti che ancora non c’è stata.
La presenza discreta della Germania prevale nelle istituzioni che contano dell’Ue fuori dal quadro tradizionale comunitario. La Banca Europea degli Investimenti, che coordinerà il piano Juncker da 315 miliardi di euro, è diretta da Werner Hoyer, ex parlamentare dei liberali tedeschi della Fdp e sottosegretario agli Esteri del secondo governo Merkel. L’economista tedesco Klaus Regling, che tra il 2001 e il 2008 alla Commissione era stato direttore generale agli Affari economici e finanziari, dal 2010 è il direttore dei fondi salva stati Efsf (l’European Financial Stability Facility) e Esm (l’European Stability Mechanism). Juncker ha nominato la tedesca Elke König presidente del Board di risoluzione unico delle banche. Del resto, tenere sotto controllo l’unione bancaria è una priorità di Berlino, che deve proteggere le sue banche regionali e casse di risparmio dagli occhi troppo indiscreti della Bce ed evitare che i soldi dei contribuenti tedeschi finiscano a istituti di credito in fallimento in altri paesi. Dentro la Bce, la francese Danièle Nouy è a capo del Meccanismo di supervisione unico delle banche, ma la tedesca Sabine Lautenshlager è stata nominata sua vice.
Il rimpasto che Juncker imporrà ai vertici della sua burocrazia dovrà evitare di dare l’impressione di una Commissione germanizzata. Vecchi e nuovi equilibri vanno rispettati. La diarchia Selmayr-Day ha ulteriormente rafforzato l’influenza di Berlino sull’esecutivo comunitario. La Francia non deve apparire come una potenza europea definitivamente in declino. L’Italia ha ritrovato un certo peso e potrebbe ottenere incarichi importanti, dopo il 40 per cento ottenuto da Matteo Renzi alle elezioni europee dello scorso anno, tanto più che negli ultimi anni ha perso due direttori generali (Stefano Sannino ha abbandonato l’Allargamento per assumere l’incarico di ambasciatore italiano presso l’Ue e Paola Testori Coggi che ha dato le dimissioni dalla Dg alla Salute e Consumatori dopo un complotto interno contro di lei). Dare al Regno Unito una Direzione Generale strategica sarebbe un modo per invitare i britannici a non votare per l’uscita dall’Ue. I paesi dell’est sgomitano come “parvenu”. Quelli del nord lamentano una sottorappresentazione. Ma, malgrado la sua riluttanza a presentarsi come potenza politica egemone dell’Ue, la Germania ha saputo piazzare i suoi funzionari nei posti dell’alta amministrazione europea che sono chiave per tirare le fila delle politiche comunitarie. “Non è solo la dimostrazione della forza tedesca”, dice al Foglio un ambasciatore. “E’ il sintomo della debolezza degli altri”.
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