Il freno a mano tirato dell’Europa
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La Francia tra veti sull’immigrazione, tic ultrasovranisti e pil asfittico
di Renzo Rosati | 02 Giugno 2015 ore 06:15
Roma. In Europa “l’economia del futuro parlerà italiano e francese”. Cortesia verso l’ospite transalpino o modo di esorcizzare le ricette da sinistra radicale tipo Podemos o Syriza, le parole di Matteo Renzi il 30 maggio a Trento, al tavolo con il premier francese Manuel Valls, si scontrano con la realtà. Se non nel futuro, certamente nel presente. Da qui al summit dei capi di governo europei di fine giugno tutte le capitali dell’Ue sono infatti impegnate su un doppio problema: rinnovare la governance europea con una revisione dei suoi trattati, e per questa via evitare il Brexit, l’uscita della Gran Bretagna, con il referendum che David Cameron, forte della riconferma a suon di maggioranza assoluta, indirà tra un anno e mezzo. Dunque non la solita routine. Molte pedine sono state messe sulla scacchiera, a partire da Palazzo Chigi con il documento intitolato “Completare e rafforzare l’unione economica e monetaria”.
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Una virata dalle usuali rivendicazioni “meno austerity, più flessibilità, più investimenti”, e anche dalla rottamata messa in comune del debito (Eurobond) verso una condivisione del rischio di stampo più filotedesco: tipo accantonamenti temporanei di fondi da usare in momenti di crisi, completamento dell’Unione bancaria e assicurazione europea contro la disoccupazione. Berlino e Parigi hanno iniziato la partita con l’apertura classica, un documento congiunto che salva i trattati attuali con vaghe promesse di rinnovamento. Il succo è che la sovranità rimane ai governi, con la Commissione a fare sorveglianza contabile e la Banca centrale europea al pronto soccorso monetario. Cioè la routine che finora ha consentito alla Francia di prendersela comoda con le riforme, sforando sistematicamente i tetti di deficit senza pagare dazio sui tassi d’interesse. Una situazione che starebbe irritando l’Eurotower, che avrebbe in animo di staccarsi dal gruppone delle istituzioni comunitarie ed elaborare un proprio progetto, centrato su riforme ambiziose da chiedere a tutti i governi: obiettivo, mettere la crescita europea in linea con le aree dove esistono Banche centrali con pieni poteri, cioè Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone. Poi però Germania e Francia si sono messe a parlare linguaggi diversi, dando la sensazione di un vecchio motore renano ingrippato, con Angela Merkel che accelera e François Hollande che frena. Cameron, impegnato in un tour di capitali per capire se e quanto l’Europa voglia cambiare, ha ottenuto da Merkel un’apertura inattesa: “Quando si è convinti di un’idea non si può dire che una modifica dei trattati sia impossibile”. Due giorni prima il tu per tu con Hollande aveva prodotto risultati opposti: “Lo status quo non va più bene” (Cameron); “Gli inglesi faranno le loro proposte, le valuteremo” (Hollande). A chiarire le cose era stato il ministro degli Esteri, Laurent Fabius: “I britannici sono entrati in una squadra di calcio, non possono iniziare a giocare a rugby”. Tattica? La tendenza innata di Merkel a mediare, mentre Hollande parla soprattutto ai francesi? Evitare il Brexit è un’occasione, forse l’ultima, per ridare sprint agli ammuffiti meccanismi europei. Questo pensa Renzi, il cui incontro con Cameron è fissato il 17 giugno a Milano; e questo dimenticano i tifosi di un asse franco-italiano che non è mai veramente esistito. Ultimo esempio, fuori dall’economia, l’immigrazione, con la Francia tra i primi a smarcarsi ancora dalla redistribuzione per quote dei rifugiati, dopo avere detto il contrario. Ma è sulla difesa del proprio modello economico e sociale che Parigi fa da anni catenaccio, con gollisti e socialisti. Secondo l’Echos, la politica parigina subirebbe la sindrome della sconfitta come nel referendum del 2005 sull’istituzione di una Costituzione europea, quando il 55 per cento dei francesi votò “no” a un testo che era stato voluto in pompa magna dal governo gollista.
Quella Costituzione europea dell’inizio degli anni 2000 doveva essere nientemeno che il contraltare della Costituzione americana, ma dopo la bocciatura francese e quella successiva dell’Olanda fu abbandonata, recuperando nel Trattato di Lisbona del 2007 solo le parti sul funzionamento delle istituzioni. In quei primi anni Duemila, Francia e Germania sforarono per tre anni di seguito il tetto del 3 per cento di deficit, evitando la procedura d’infrazione anche grazie all’Italia. La Germania però utilizzò lo sconto per varare radicali riforme del lavoro e tagli alla spesa pubblica. La Francia lasciò tutto immutato, compreso il tetto di 35 ore lavorative settimanali. Immutato è rimasto a oggi pure il vizietto: nonostante gli strali spuntati di Bruxelles, il deficit nel 2014 è stato del 4,4 del pil, quest’anno si dovrebbe ridurre al 4,3, e solo fra due anni scendere sotto il 3. Il debito pubblico che all’inizio della crisi era al 68 per cento, come la Germania, dovrebbe toccare il 100 nel 2016: più 47 per cento. Negli stessi otto anni il debito italiano sarà aumentato di 30 punti. Il motivo sta tutto nell’avanzo primario (bilancio annuo al netto degli interessi), che per l’Italia è attivo da 20 anni e per la Francia in rosso dal 2001; nonché nella spesa pubblica, oltre mille miliardi in Francia, 800 in Italia. Queste cifre permettono a Parigi di finanziare una crescita trimestrale più brillante di quella italiana (più 0,6 rispetto a più 0,3), con una disoccupazione inferiore (ma in aprile i disoccupati sono arrivati al nuovo massimo storico di 3,53 milioni). Grazie anche a uno spread a 25 punti, contro i 130 italiani: 47 miliardi di interessi annui rispetto ai 100 dell’Italia.
A questo punto si potrà pensare che le scappatoie rendono: ma quella francese è la fotografia di un paese immobile, neppure premiato da elettori sempre insoddisfatti, a cominciare da quelli socialisti i cui leader hanno fatto di economisti anti mercato a là Thomas Piketty dei perfetti idoli glam. Né le performance dei francesi, pur con la droga del deficit, si avvicinano lontanamente a quelle di Germania e alla Gran Bretagna che hanno fatto fruttare austerity e riforme. Nei panni di Renzi – ma in generale dell’Italia – la domanda è: su chi investire?
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