L’accordo miope con l’Iran rimanda di poco la minaccia,
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ma alimenta l’immagine trionfante di Obama
di Mattia Ferraresi | 04 Aprile 2015 ore 06:30 Foglio
Foto LaPresse
New York. L’accordo nucleare salutato da Barack Obama con il più abusato degli aggettivi presidenziali, “storico”, si muove nell’orizzonte del rimandare e del contenere, non in quello dello smantellare e dell’impedire. Da giovedì pomeriggio si ripete che bisognerà vedere i dettagli da stendere da qui a fine giugno, ma il framework parla di centrifughe “ridotte” (non smantellate, né portate fuori dal paese: e li chiamano dettagli) per 10 anni, arricchimento di materiale nucleare a bassa intensità per 15 anni, lo stesso tempo nel quale l’Iran promette di astenersi dal costruire nuove centrali e convertire l’impianto di Fordo in un “centro di ricerca”, qualunque cosa voglia dire. Ogni concessione iraniana è mitigata da una data di scadenza, si parla di congelare senza smantellare, il tempo di breakout – quello necessario per costruire la bomba – s’allunga giusto di qualche mese, ma nulla lascia presagire la fine delle ambizioni atomiche dell’Iran.
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Hassan Rohani non mente quando annuncia trionfante che con l’accordo il paese “ha conservato i suoi diritti nucleari”, e non è per un’allucinazione collettiva del popolo iraniano che il ministro degli Esteri, Javad Zarif, è stato accolto come una rockstar al suo ritorno da Losanna. “Quando gli accordi scadono, la Repubblica islamica tornerà a essere istantaneamente uno stato sul confine della capacità atomica”, sintetizza il Washington Post. In cambio, il paese viene liberato dal giogo delle sanzioni, e quando Washington ha suggerito che questo avverrà in modo graduale, Zarif ha iniziato a fare il troll su Twitter.
Il fatto, al di là dei giudizi politici, è che la bozza di accordo non soddisfa nemmeno i requisiti che lo stesso Obama aveva fissato. Nel 2012 diceva che l’unico compromesso accettabile era quello in cui l’Iran “terminava il suo programma nucleare”, oggi l’Amministrazione si accontenta di rimandare la minaccia, suggerendo capziosamente che l’unica alternativa a questo “good deal” è la guerra, tertium non datur. Normale che, dovendo scegliere fra una pezza temporanea e un’apocalisse mediorientale senza fine, l’opinione pubblica sia orientata ad accogliere di buon grado l’intesa. Quello che rende storica la circostanza è il cambio di postura nei confronti dell’Iran e – per estensione – degli stati canaglia, che Obama è convinto di poter portare nell’alveo della ragione parlando la lingua felpata del negoziato, assicurando che il compromesso rispetta il criterio reaganiano del “trust, but verify”.
Dopo le dichiarazioni di Losanna, il giornalista Paul Brandus, fondatore del sito West Wing Reports, ha scritto che prima della fine del mandato Obama vorrebbe visitare l’Iran, per coronare simbolicamente un patto che qualche anno fa non avrebbe superato gli standard della stessa Casa Bianca. E’ un rumor inverificabile ma non inverosimile, che corrisponde perfettamente all’avvento del mondo de-canaglizzato che Obama ambisce a lasciare dietro di sé. Passare alla storia come il presidente normalizzatore che ha riaperto i canali di dialogo con l’Iran e Cuba, dopo decenni di odi, sospetti e silenzi, è il massimo per la sua concezione presidenziale, anche se questa costosa normalità ha una data di scadenza.