Il nuovo impero dell’Iran. L’ideologia rivoluzionaria di Teheran s’espande in medio oriente,
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ma Obama finge di non vedere. Trionfo nell’esportazione della rivoluzione iraniana in Siria, Iraq, Libano e Gaza”
di Carlo Panella | 31 Marzo 2015 ore 11:25 Foglio
Trionfo nell’esportazione della rivoluzione iraniana in Siria, Iraq, Libano e Gaza” e “ricostruzione dell’impero iraniano in tutto il medio oriente”: questi, non certo le riforme, sono i temi del dibattito strategico che esalta e occupa la massima dirigenza iraniana. A queste linee strategiche bisogna guardare per capire le ragioni che hanno spinto la Lega araba, in primis l’Arabia Saudita e l’Egitto, a formare per la prima volta in settant’anni una loro forza militare congiunta esplicitamente funzionale a contrastare sul terreno di battaglia l’Iran. A iniziare dalla imminente battaglia di terra per la “riconquista sunnita” dello Yemen.
Prima di firmare l’accordo sul nucleare, gli americani farebbero bene a capire che cosa significa “l’esportazione della Rivoluzione”, perché porta diritto a quel “lato oscuro della forza” che domina la dirigenza di Teheran, che si presenta col volto della moderazione e della responsabilità ai tavoli di trattativa, ma interviene militarmente in medio oriente per destabilizzare i governi e imporre il suo “ordine rivoluzionario”.
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La filosofia dell’accordo si basa proprio sulla promessa e l’impegno dell’Iran di accettare stringenti ispezioni, che permettano all’Agenzia atomica dell’Onu di verificare che non venga superato quello spread di un anno che permetterebbe alle migliaia di centrifughe concordate di raffinare uranio arricchito funzionale a una bomba atomica. Promessa e impegno che Barack Obama ritiene da sempre attendibili, soprattutto da quando è presidente il “riformista” Hassan Rohani. Ma se Obama esaminasse quali sono le linee di politica estera “riformiste” sviluppate proprio dal governo Rohani, dovrebbe prendere atto che sono rivoluzionarie, eversive, dinamitarde della legalità internazionale e non prive di un’aurea “imperiale” che un domani legittimeranno qualsiasi sotterfugio, trucco, menzogna nei confronti di quelle ispezioni e verifiche che sono il baricentro della trattativa sul nucleare.
Questa cruda analisi non è nostra, non è del premier israeliano Benjamin Netanyahu (né del re saudita Salman o dell’egiziano al Sisi), ma è il senso delle affermazioni della massima autorità militare iraniana, il comandante dei pasdaran Ali Jaafari, di fronte al più alto e autorevole organo collegiale del regime, il Consiglio degli esperti, diretto dall’ayatollah integralista Mesbah Yazdi: “L’Iran ha raggiunto un nuovo capitolo della sua politica di esportazione della rivoluzione islamica all’estero. La rivoluzione islamica sta progredendo a buona velocità. Non solo la Palestina e il Libano hanno conosciuto l’influente ruolo della Repubblica islamica, ma anche i popoli di Iraq e Siria. Anche loro apprezzano la nazione dell’Iran. La fase dell’esportazione della rivoluzione è entrata in una nuova èra. Hezbollah e la sua resistenza contro uno degli eserciti più forti del mondo è uno dei miracoli della Rivoluzione islamica. E’ parte della potente influenza del sistema islamico come timoniere della regione. L’Iran miete successi continui nella sua strategia di esportazione della rivoluzione islamica in medio oriente”.
Con altri e più crudi termini, nel settembre del 2014 Ali Reza Zakani, parlamentare di Teheran, si è congratulato perché “l’Iran ora governa quattro capitali arabe: Baghdad, Damasco, Beirut e Sana’a”.
Pochi giorni dopo, Ali Younesi, consigliere del presidente Hassan Roani ed ex ministro dell’Intelligence nel governo di Khatami, ha espresso con altri – e ancora più preoccupanti – termini, perché provenienti da un “riformista”, la concezione geopolitica del regime iraniano che sostiene questa esportazione della rivoluzione: “L’Iran oggi è ridiventato quell’impero che era un tempo, come indicava tutta la sua storia, e ora Baghdad è il centro della nostra civiltà, cultura e identità, come lo era nel passato. Mi riferisco all’impero Sasanide che governava nell’epoca pre-islamica e che ha conquistato l’Iraq. La capitale dell’impero era Baghdad. Tutta l’area del medio oriente è Iran che protegge tutte le nazionalità dell’area perché le consideriamo parte del nostro Iran che combatte l’estremismo islamico, il takfirismo, l’ateismo, i neo ottomani, i wahabiti, l’occidente e il sionismo”. Dunque, la vocazione imperiale e rivoluzionaria dell’Iran lo porta a “combattere” – non a convivere pacificamente – con la Turchia (neo ottomana), l’Arabia Saudita (wahabita), gli Stati Uniti e Israele, oltre che, naturalmente, lo Stato islamico.
Jafari, il più alto esponente del blocco militare-oltranzista del regime, esattamente come un autorevole “riformista” che consiglia Rohani e come un parlamentare oltranzista, spiegano la strategia eversiva e massimalista che alimenta lo sfrenato attivismo militare dell’Iran in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Con chiarezza annunciano al mondo che l’intensa attività militare dei pasdaran del generale Qassem Suleimaini in Siria, Libano e Iraq e l’appoggio esplicito al golpe portato a termine dagli sciiti Houthi nello Yemen non sono impegni episodici, per sostenere alleati in crisi, ma fanno parte di una escalation rivoluzionaria che si protrarrà nel tempo con l’obiettivo di estendere il dominio politico dell’Iran rivoluzionario nella regione.
L’Amministrazione Obama (così come le cancellerie europee e purtroppo anche la Farnesina) continua a non vedere queste chiare linee di espansione rivoluzionaria e “imperiale” e ipotizza di avere di fronte a sé un Iran tutto e solo teso a una ripresa dello sviluppo interno – fiaccato dalle sanzioni – al massimo accompagnata da una legittima aspirazione a un ruolo di potenza regionale. Non è così: Younesi, Jafari e Zakani non fanno altro che attualizzare ed esplicitare la strategia di esportazione della rivoluzione enucleata a chiare lettere nel 1982 dall’ayatollah Khomeini. Allora l’Iran era riuscito a contenere l’aggressione dell’Iraq di Saddam Hussein (spalleggiato dall’Arabia Saudita) che mirava a stroncare sul nascere il contagio rivoluzionario khomeinista. Fiaccato dalla “non vittoria”, Saddam Hussein aveva accettato la mediazione dell’Onu che sanciva il ritorno allo status quo antecedente al conflitto. Ma Khomeini la rifiutò e lanciò la parola d’ordine: “Esportare la rivoluzione iraniana a iniziare da Baghdad”. Nell’impresa gettò pasdaran e bassiji e portò il paese alla rovina, fino a quando nel 1988 fu costretto “con la morte nel cuore” a fermare il massacro costato altri 500 mila morti.
Tutta la dirigenza iraniana di oggi si è formata e ha conquistato il potere (espellendo e uccidendo i riformisti, a iniziare da Abol Hassan Banisadr) nel nome di quella consegna rivoluzionaria. La stessa costruzione della bomba atomica e la dotazione dei missili intercontinentali (funzionali agli ordigni nucleari) sono finalizzati a una raffinata strategia di uso della “deterrenza per esportare la Rivoluzione”, che ha perfettamente funzionato anche solo nella fase di annuncio.
A chi obietta che i discorsi e i progetti citati da questi tre esponenti iraniani non sono rappresentativi di tutta la dirigenza di Teheran, che invece, con Rohani, è impegnata in una virata moderata e riformista, rispondono crudamente i fatti. E’ inequivocabile quanto è accaduto e continua ad accadere nei paesi su cui si è esteso manu militari il “nuovo impero iraniano” a motore e prassi rivoluzionari. Il massiccio intervento militare unilaterale della Brigata al Quds del generale Suleimaini ha influito sul governo politico di Libano, Iraq, Siria e Yemen, le cui decisioni, opzioni, scelte sono ormai subordinate alle strategie di Teheran, se non direttamente imposte da Teheran. Persino il segretario di stato americano, John Kerry, a fine febbraio, si è accorto (ed è tutto dire) che “l’Iran senza alcun dubbio ha contribuito al collasso del governo dello Yemen”. I passaggi successivi hanno poi chiarito quale sia la strategia degli Houti sciiti yemeniti, armati (recentemente è stata intercettata una nave iraniana piena d’armi a loro diretta) dagli ayatollah: aggiungere lo Yemen “rivoluzionario” alla zona di influenza del nuovo impero iraniano.
Non è tutto. Questa essenza rivoluzionaria ed eversiva della strategia di Teheran si traduce in una tecnica militare – il cui massimo esponente è appunto il generale Suleimaini – coerente quanto terrificante. Fondamentale da valutare proprio perché smentisce ogni e qualsiasi disposizione dell’Iran di Rohani a rispettare le regole del diritto internazionale. Una pratica di combattimento i cui crudi termini e l’esplicito e minaccioso significato sono di nuovo ignorati dall’Amministrazione Obama. Pure la denuncia, durissima, dei crimini commessi dalle milizie sciite comandate dal generale iraniano Suleimaini durante l’assedio di Tikrit provengono da due personalità cruciali per gli Stati Uniti nel contrasto allo Stato islamico: Massoud Barzani, capo dei servizi segreti del Kurdistan iracheno, e Ahmed al Tayeb, grande Imam dell’Università di al Azhar del Cairo. Con eccellente sintesi, riferendosi al loro comportamento durante l’assedio di Tikrit, Barzani ha dichiarato: “Le milizie sciite sono un pericolo maggiore dello Stato islamico”. Il grande imam al Tayeb il 12 marzo ha emesso un lungo, inequivocabile comunicato che ha creato un caso diplomatico tra Baghdad e il Cairo: “Al Azhar esprime le sue preoccupazioni per le decapitazioni e le aggressioni contro pacifici cittadini iracheni, del tutto estranei allo Stato islamico, commesse dalle milizie sciite alleate con l’esercito iracheno a Tikrit e nell’Anbar. Queste milizie hanno bruciato moschee sunnite e ucciso donne e bambini sunniti. Condanniamo fermamente i crimini barbari che le milizie sciite commettono nelle zone sunnite che le forze irachene hanno iniziato a controllare. Invitiamo le organizzazioni umanitarie internazionali per la difesa dei diritti umani a intervenire immediatamente per fermare questi massacri”.
Si è così allargata quella crisi dirompente tra sciiti e sunniti che vede l’Amministrazione Obama tacere (con una complicità oggettiva), nonostante le future conseguenze eversive nella regione, rilevate con forza e allarme da un governo dell’Arabia Saudita che ormai è ai ferri corti con gli Stati Uniti, non meno – il paradosso è solo apparente – di quanto già non sia Bibi Netanyahu.
Queste denunce dovrebbero preoccupare molto anche il governo italiano, perché sono state pronunciate da un alto esponente di quel Kurdistan iracheno che giustamente l’Italia arma e appoggia. Un’Italia che è parte a pieno titolo di una coalizione obamiana che non partecipa all’assedio di Tikrit, ma che arma, assiste e consiglia quell’esercito iracheno che si muove in battaglia con l’indispensabile aiuto proprio delle famigerate milizie sciite agli ordini di Teheran.
Questa barbarie sciita-iraniana si è dimostrata tanto feroce quanto inefficace. Dopo un grande rullar di tamburi mediatico trionfalistico durato tre settimane, l’assedio di Tikrit è stato sospeso ormai da 10 giorni. La penosa scusa ufficiale del governo di Baghdad indica le ragioni di questa pausa nella capillare diffusione di mine e trabocchetti esplosivi nel contesto urbano. Come se gli assalitori che davano da giorni già per conquistata la città non avessero previsto questa ovvia evenienza. In realtà, invece, ancora una volta (questo è il terzo assedio a Tikrit che fallisce) si è verificato che un’armata sciita di 20 mila uomini, pur feroce, non è in grado di sconfiggere le milizie del Califfato. Le ragioni sono sicuramente varie, ma è probabile che la prima sia proprio nel fatto che ancora una volta i sunniti di Tikrit e dell’Anbar preferiscono sostenere il pur feroce dominio di Abu Bakr al Baghdadi, pur di non essere massacrate dagli sciiti. Con tutta evidenza, infatti, questi massacri sciiti agli ordini del generale Suleimaini non sono casuali, ma funzionali a imporre un dominio politico sciita-iraniano e a “eliminare il carattere arabo sunnita dell’Iraq”, come denunciava nel 2009 Abdel Razzaq al Ali Suleiman, capo della potente tribù sunnita dei Dulaimi (tra le più grandi dell’Anbar, assieme a quella dei Sammar e degli al Dhari), e presidente del Consiglio dei trentanove capi tribù e dei diciannove notabili iracheni: “Gli arabi devono unire le forze per fermare l’influenza iraniana in Iraq che produce distruzione, uccisioni e espulsioni dai nostri territori. Se l’Iraq, Dio non voglia, dovesse perdere, con la nostra scomparsa, la sua identità araba, l’Iran si mangerebbe il Golfo dalla sera alla mattina”.
Questa analisi, così come l’equiparazione delle milizie sciite-iraniane allo Stato islamico, è condivisa dal generale David Petraeus (ex direttore della Cia, nominato da Obama), che così l’ha esposta durante un recente summit nel Kurdistan iracheno, con evidente critica alle scelte dell’Amministrazione Obama: “Le milizie sciite e l’Iran che le sostiene e perfino le guida rappresentano a lungo termine per l’Iraq e per gli equilibri regionali una minaccia più grave dello Stato islamico. E’ una Chernobyl geopolitica che continuerà a diffondere instabilità radioattiva e ideologia estremista nell’intera regione fino a che non sarà bloccata. E’ una minaccia che deve essere affrontata immediatamente e gli Stati Uniti devono fare di più. Lo sforzo avviato solleva domande legittime sulla sufficienza delle sue dimensioni, obiettivi, velocità e risorse. Il regime iraniano non è nostro alleato in medio oriente: è parte del problema, non la soluzione. Più gli iraniani sembrano dominare la regione, più si infiammerà il radicalismo sunnita e alimenterà l’ascesa di gruppi come lo Stato islamico. Contro il Califfato è necessario coinvolgere le forze sunnite che possono essere considerate come liberatori, non conquistatori. Per sconfiggere il Califfato, poi, non è solo necessario farlo sul campo di battaglia, ma simultaneamente, attraverso una nuova riconciliazione politica con i sunniti che devono tornare a contare. Devono sentire che hanno una responsabilità nel successo dell’Iraq piuttosto che nel suo fallimento. Il nostro ritiro ha contribuito alla percezione che gli Stati Uniti lasciassero il medio oriente… la percezione nella regione negli ultimi anni è che gli Stati Uniti stiano scomparendo e i nostri nemici prendendo piede”. Petraeus è il generale americano che – col voto contrario dell’allora senatore Obama – portò nel 2006, con la persuasione politica, le tribù sunnite dell’Anbar a partecipare a quel “surge” che sconfisse al Qaida e costrinse tanti suoi miliziani, incluso al Baghdadi, a cercare riparo in Siria. Di sicuro, non condivide i prezzi che l’Amministrazione Obama è disposta a pagare pur di non irritare la dirigenza iraniana e arrivare alla conclusione di un accordo sul nucleare. Ma è anche l’unico leader politico-militare americano che ha dimostrato nei fatti, vincendo, di capire le dinamiche irachene. Inclusi i pericoli dell’espansione, a partire dall’Iraq, della rivoluzione khomeinista iraniana.
Ma l’assedio di Tikrit ha messo in luce un aspetto che si potrebbe definire farsesco, se il contesto non fosse tragico, della più confusa strategia mediorientale americana di tutta la storia. Preso atto che neanche l’aviazione irachena sa combattere, sospeso l’assedio via terra, la scorsa settimana il governo di Baghdad ha chiesto all’aviazione americana di bombardare le postazioni dello Stato islamico di Tikrit. Ma, effettuati i primi raid, buona parte delle milizie sciite ha abbandonato l’assedio per protesta contro “l’alleanza” con il “satana americano”. Un caos mai visto.
I 5-600 miliziani dello Stato islamico continuano così a tenere sotto scacco quella che ci era stata presentata come una nuova “Invencible Armada” che non è più di 20 mila soldati, ma che in teoria, dovrebbe comunque facilmente schiacciarli. Se solo gli Stati Uniti non continuassero a capovolgere Von Clausewitz, applicando la nuova versione di Obama: “La guerra è la continuazione di una non politica con altri mezzi”.
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