L'ascesa rapida. Chi c’è dietro il progetto editoriale di Francesca Albanese: dai post istituzionali
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ai video professionali e virali. L’improvvisa svolta della comunicazione social di Albanese. Chissà chi guida la sua macchina mediatica
16 Luglio 2025 alle 09:26 Redazione ilriformista.it lettura5’
Dopo mesi di discussioni accese sul conflitto israelo-palestinese, la rapida ascesa di Francesca Albanese merita di essere esaminata con maggiore attenzione. Oltre a narrazioni incisive e a un linguaggio diretto, ciò che sembra una reazione emotiva del momento nasconde in realtà una strategia molto più raffinata. Tra ottobre 2023 e la primavera 2024, i suoi profili subiscono un notevole cambiamento: si passa da dichiarazioni istituzionali a contenuti brevi, professionali e perfettamente virali. Un’evoluzione difficile da interpretare come un fenomeno spontaneo, soprattutto per chi non ha un profilo comunicativo consolidato. Colpisce la sua abilità nel padroneggiare i codici visivi, l’uso di parole chiave e la capacità di suscitare reazioni istintive attraverso precisi stimoli emotivi.
Tutto questo fa riflettere su un lavoro editoriale che va ben oltre l’iniziativa di una sola persona. È difficile pensare che una coerenza così forte tra forma e messaggio, linguaggio e piattaforma, possa derivare da un processo amatoriale. È più plausibile immaginare una struttura, un team – che potrebbe essere informale o distribuito – che supporta la relatrice e costruisce la sua identità digitale come si farebbe con un prodotto. Non si tratta solo di un personaggio pubblico che raccoglie consensi, ma di un sistema comunicativo che genera reazioni, polarizzazione e visibilità.
Ed è proprio il modo in cui viene esposta a suggerire l’idea di un’architettura mediatica ben pianificata, dove nulla è lasciato al caso. E qui si presenta il vero punto cruciale: l’algoritmo. Se un tempo era sufficiente “seguire i soldi”, oggi seguire la logica delle piattaforme è molto più complesso. I criteri di visibilità sono poco chiari, spesso inaccessibili, e distinguere tra spontaneità e amplificazione artificiale è quasi impossibile – soprattutto su temi divisivi, dove i contenuti ricevono una spinta automatica, indipendentemente dalla loro accuratezza.
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Il caso della grafica All Eyes on Rafah mette in luce quanto possa essere opaca la viralità online: in sole 72 ore, un’immagine creata con Intelligenza Artificiale ha superato i 60 milioni di condivisioni su Instagram, TikTok e X. Nonostante le politiche di etichettatura dei contenuti AI, non è stato applicato alcun avviso, il che ha contribuito a creare un’illusione di autenticità e a potenziarne l’impatto. Anche se non ci sono prove di manipolazione, il dubbio che la diffusione non sia stata del tutto spontanea è più che legittimo. Applicare questo schema alla visibilità di Francesca Albanese non è affatto inverosimile. E l’accelerazione della sua visibilità, il rilancio simultaneo da parte di account di massa, la qualità sempre più alta dei materiali audiovisivi e la ripetitività sincronizzata del linguaggio alimentano un sospetto fondato: non stiamo assistendo a un fenomeno spontaneo, ma a un vero e proprio progetto comunicativo.
Francesca Albanese ha trovato nella tragedia il suo veicolo, ma il suo brand ha radici altrove. È una costruzione intenzionale, figlia della stessa logica descritta dalla dottrina Gerasimov sull’ibridazione tra propaganda, cultura e operazioni non convenzionali. Oggi questo approccio è perfettamente in linea con i meccanismi del “discorso guida” che le grandi piattaforme promuovono attraverso modelli predittivi e selezione algoritmica.
Per questo non basta più guardare chi scrive i contenuti. Bisogna indagare chi li spinge, chi li perfeziona, chi ci guadagna.
Quando il racconto diventa una risorsa strategica, c’è sempre qualcuno pronto a investire per controllarlo. E certe ascese troppo rapide fanno pensare che voci come quella, quando intercettano il vento giusto, attirino facilmente l’interesse di chi sarebbe disposto a tutto pur di amplificarle, guidarle o metterle nelle condizioni ideali per emergere.
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Gaza, tutte le balle su genocidio e carestia smentite dall’ultimo studio del BESA: “Dati manipolati e metodologie fallaci”
Sono ormai 30 mesi che Israele viene demonizzata quotidianamente per la guerra a Gaza, sulla base dei dati forniti dalla propaganda di Hamas e da personaggi come Francesca Albanese, difesa proprio in questi giorni dal regime degli ayatollah iraniani. Tanti media hanno seguito questa narrazione anti-occidentale nel metodo e nel merito, contribuendo a creare un clima di intolleranza antiebraico. È inquietante analizzare come il racconto di ciò che succede a Gaza sia la versione moderna della caccia alle streghe: la maldicenza e i “si dice” diventano realtà sui media mainstream, con le conseguenze che vediamo in termini di violenza e terrorismo.
Contro tutto questo non possiamo che tornare al meglio della cultura occidentale: il metodo scientifico. A tal proposito arriva uno studio rigoroso realizzato dal Begin-Sadat Center for Strategic Studies, che rigetta le accuse a Israele di perpetrare un genocidio a Gaza, grazie a un’analisi di fonti primarie e secondarie. Il report è stato realizzato da un gruppo multidisciplinare composto dal professor Danny Orbach (storico militare), dal dottor Jonathan Boxman (analista quantitativo), dal dottor Yagil Henkin (esperto in guerra urbana) e dall’avvocato Jonathan Braverman (specialista in diritto internazionale umanitario).
Gli autori criticano il “bias umanitario” delle Ong internazionali e propongono una metodologia basata su tre princìpi: cautela nella selezione delle fonti, verifica incrociata e consolidamento dei dati. Una delle scoperte più significative riguarda la presunta carestia intenzionale. Gaza già dipendeva quasi del tutto dagli aiuti esterni e, paradossalmente, i rifornimenti alimentari dopo ottobre 2023 hanno talvolta superato quelli pre-conflitto. Così vengono demolite le accuse di affamare deliberatamente i gazawi. Hamas, secondo il rapporto, impiega civili come “scudi umani”, costruendo tunnel sotto infrastrutture civili e usando edifici pubblici per scopi militari. Gaza viene descritta come una delle sfide militari più complesse per un esercito occidentale.
Dei 50.021 morti riportati da Gaza, solo 61 casi sono associati ad accuse di uccisioni intenzionali, basate su fonti poco affidabili. Alcune testimonianze mediche su presunte esecuzioni di bambini risultano non verificate o fraintese. Non sono emerse prove di bombardamenti indiscriminati. Il rapporto evidenzia misure di precauzione adottate dall’Idf, come evacuazioni e munizioni di precisione. Solo l’1,2% delle vittime era nelle zone sicure designate. Gli autori contestano i dati del Ministero della Salute di Gaza, visto che i combattenti vengono conteggiati come civili. Anche la percentuale di vittime donne e bambini è statisticamente inaccurata.
Gli autori tracciano un parallelo con l’Iraq degli anni ’90, dove le stime di centinaia di migliaia di bambini morti per le sanzioni americane si rivelarono completamente false dopo il crollo del regime di Saddam Hussein. Il rapporto mette in guardia sull’uso politico del termine “genocidio”: una sua applicazione indiscriminata ne indebolisce il significato legale ed etico. Pur riconoscendo la sofferenza a Gaza, gli autori affermano che le accuse contro Israele si basano su dati manipolati e metodologie fallaci.


