Panebianco: “Regime change? Solo la classe dirigente armata può far capitolare gli ayatollah”

Il politologo e saggista è scettico sull’esportazione della democrazia a Teheran: “Non bastano le piazze, all’establishment iraniano servirà consenso politico”

Lorenzo Benassi Roversi 24.6. 2025 alle 18:56 ilriformista.it lettura2'

Le prospettive internazionali? «Il mondo non va verso la pace perpetua immaginata da Kant e l’Europa deve riconoscere i nemici prima di allargare il perimetro». L’esercito europeo? «Un progetto per il domani, ma per l’oggi serve coordinarsi dentro la Nato». Regime change in Iran? «Non si pensi di veder sorgere la democrazia». Nel quadro di un mondo sempre più teso, questa è – in sintesi – la lettura disincantata sul ruolo di Europa e Occidente del Prof. Angelo Panebianco, scienziato politico tra i più influenti del nostro Paese.

Mentre gli Stati Uniti si coinvolgono militarmente in Iran, l’asse con l’Europa non è mai apparso così in crisi. Trump impone dazi e barriere commerciali, e soprattutto minaccia la revoca della protezione militare agli alleati europei. Che dire a riguardo?

«Il processo di allontanamento degli Stati Uniti dall’Europa è tutt’altro che inedito, anche se oggi mostra un’accelerazione. L’ultima presidenza globalista fu quella di Clinton. Già Bush aveva contraddetto le regole del multilateralismo; con Obama l’attenzione americana ha iniziato a spostarsi decisamente dall’Europa verso l’Asia. Il primo Trump ha avviato politiche protezioniste poi mantenute da Biden. Il Trump di oggi accelera in questa direzione».

L’Europa, che nasce come istituzione per la pace, si ritrova a giocare il proprio ruolo in un mondo in guerra.

«In Europa ci si è cullati a lungo nella protezione americana, e con la fine della Guerra Fredda in molti si sono convinti di aver raggiunto la pace perpetua, di aver lasciato la guerra alle spalle. Ora ritorniamo nel mondo duro che l’umanità ha sempre conosciuto. La riconversione è pesantissima, molto difficile rivedere le priorità».

A proposito di priorità, a luglio è attesa la proposta della Commissione europea per il bilancio pluriennale dell’Unione. Al netto della retorica sulla Difesa comune, politiche ambientali e politiche di coesione rimarranno centrali.

«Non è possibile distogliere massicciamente risorse dalle politiche sociali e metterle nella Difesa, mancherebbe il consenso. Si tratta di una scelta che le nostre democrazie non possono permettersi. In Italia si indica l’obiettivo di raggiungere la spesa del 5% del Pil in Difesa nei prossimi 10 anni. Come se il mondo ci aspettasse».

Il debito europeo diventa plausibile?

«Non è solo un problema di soldi, c’è un tema di decisione politica. Si nota uno scollamento tra la retorica sulla Difesa e le preferenze del cittadino comune, che chiede welfare e servizi. Non si è ancora preso atto che il mondo è cambiato. Occorre dire però che il tema della Difesa dell’Europa va al di là delle politiche dell’Unione».

Ci spieghi. Non stiamo parlando dell’esercito comune?

«Non è una soluzione per il prossimo futuro. Forse, un giorno. Intanto, la Difesa dell’Europa passa per il rafforzamento della gamba europea della Nato, unica organizzazione che può promuovere un coordinamento tra le Difese nazionali, dentro e fuori dall’Unione. Penso ad esempio alla Gran Bretagna».

Si paventa l’allargamento a Est dell’Unione, per sfilare dall’area di influenza russa l’Europa orientale. C’è chi teme un ulteriore indebolimento della capacità di decisione politica.

«Sono vere entrambe le prospettive. Più si apre, più è difficile trovare una sintesi. Occorrerà applicare una discriminante che permetta di distinguere tra quei Paesi che con l’Europa condividono nemici comuni – in primis la Russia di Putin – e chi invece da essi si fa sostenere. Non sarebbe saggio lasciar entrare i secondi».

Passiamo a Israele, da sempre considerato una propaggine occidentale in Medioriente, il punto di riferimento in quell’area. È ancora così?

«Israele è caduto nella trappola di Hamas, suscitando l’indignazione internazionale e perdendo molto consenso nell’opinione pubblica occidentale. Ma che sia l’unica democrazia di quell’area è un fatto: Netanyahu è stato eletto. Ben diverso è poi lo scenario con l’Iran.

Si parla di un cambio di regime a cui l’Occidente guarderebbe con favore.

«Chiariamo che regime change non significa che al regime teocratico si sostituisca un regime democratico, come si desidererebbe in Occidente».

Cazzola su queste pagine faceva notare che in Europa è andata così: la democrazia è figlia della rimozione armata dei regimi.

«Accadde in un quadro di guerra totale, con occupazione fisica del territorio, molto distante da quello che vediamo in Iran. Se ci sarà un cambio di regime, l’opzione più probabile è che si verifichi per mano di una parte della classe dirigente iraniana, armata e con consenso politico, capace di approfittare della situazione. Non saranno né le piazze di manifestanti, che da sole non possono affrontare l’Esercito, né l’attacco di Israele e degli States, che possono indebolire il regime, ma non abbatterlo direttamente».

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