Dazi day.Dare i numeri Ecco il trucco da dilettante con cui Trump giustifica i dazi e la guerra al mondo
- Dettagli
- Categoria: Estero
Le cifre che appaiono nei cartelloni si fondano su un’interpretazione distorta del concetto di reciprocità
3.4.2025 Linkiestait lettura2’
In molti si stanno chiedendo da dove vengano le strane percentuali che Donald Trump ha mostrato al mondo intero in due giganteschi cartelloni stile piazzista anni Ottanta, per giustificare i dazi alle principali economie del mondo. Accanto a ogni Stato: Cina, Unione europea, Vietnam, Taiwan e via tassando, ci sono due colonne. La seconda in giallo, è la notizia su tutti i media di oggi, quante tasse gli Stati Uniti imporranno ai partner commerciali.
Ma ancora più interessante è quella in azzurro: la colonna «Tariffs charged to the Usa (tariffe doganali applicate agli Stati Unitii, ndr)» con un piccolo sottotitolo «incluse le manipolazioni valutarie e le barriere commerciali». Leggendole, si scopre che la Cina tassa già i prodotti americani del sessantasette per cento, l’Unione europea del trentanove per cento. E addirittura il Vietnam imporrebbe dazi del novanta per cento sui prodotti americani.
Il messaggio è semplice e brutale: questi sono i Paesi che ci sfruttano, e questi sono i dazi che da oggi li riporteranno in riga. Ma da dove vengono quei numeri? Non sono tariffe ufficiali, non corrispondono a tabelle doganali, non appaiono nei database della Organizzazione mondiale del commercio. Sono numeri credibili? Conoscendo Trump, no. E infatti il Financial Times ha raccontato il trucco. Non è un errore, ma una scelta consapevole: una formula costruita ad arte per apparire semplice, ma fondata su un’interpretazione distorta — e in alcuni casi assurda — del concetto di reciprocità. Un metodo tanto surreale quanto sistematico. C’è, insomma, una logica in questa follia. Solo che è una logica sbagliata.
Ecco come funziona: la percentuale scritta sul cartellone si ottiene prendendo il deficit commerciale bilaterale degli Stati Uniti con un determinato Paese, dividendolo per il totale delle importazioni da quello Stato. A volte dimezzato, perché «il Presidente è indulgente e vuole essere gentile con il mondo» per citare le parole di un funzionario dell’Amministrazione Trump dette ai giornalisti e riportate dal New York Post. Con questo schema, tutto diventa dazio. Anche il fatto che gli Stati Uniti comprino caffè o banane da Paesi tropicali diventa la prova che quei Paesi «stanno imbrogliando». Il che, oltre a essere economicamente insensato, ha conseguenze pesanti per la politica commerciale americana.
Prendiamo il Bangladesh. Secondo i dati ufficiali, gli Stati Uniti hanno importato beni per 8,4 miliardi di dollari nel 2024 e registrato un deficit commerciale di 6,2 miliardi. 6,2 diviso 8,4 fa 73,8 per cento. Risultato: nel tabellone di Trump, il Bangladesh impone una tariffa del settantaquattro per cento. Quindi addirittura arrotondata per eccesso. Nessuna menzione delle vere aliquote, nessuna distinzione tra prodotti o dazi doganali reali. Tutto è racchiuso in quel numero, che somma presunte barriere, manipolazione valutaria e ogni altra ingiustizia percepita. Le cosiddette verità alternative che abbiamo visto nel primo mandato di Trump.
Per giustificare questo intervento, la Casa Bianca ha richiamato un mix di leggi: International Emergency Economic Powers Act, National Emergencies Act, e sezioni 301 e 604 del Trade Act del 1974. Una giungla legale che serve a mascherare l’arbitrarietà del criterio. Mai come in questo caso, Trump ha dato i numeri.