Centrismo nordico La socialdemocrazia è tornata a vincere nel Nord Europa con un nuovo modello politico

si riorganizza combinando atlantismo, sicurezza e welfare, lasciandosi alle spalle un multiculturalismo fallimentare e puntando su una politica più realista

Enrico Varrecchione . 8.3.2025 linkiesta.it lettura6’

Dal pragmatismo di Frederiksen in Danimarca alla scommessa di Stoltenberg in Norvegia, la sinistra nordica si riorganizza combinando atlantismo, sicurezza e welfare, lasciandosi alle spalle un multiculturalismo fallimentare e puntando su una politica più realista

C’era una volta il Modello Nordico, quello che il primo ministro svedese Olof Palme, in un celebre discorso al parlamento nel 1980, aveva sintetizzato in tre punti quali «uguaglianza e giustizia sociale; politica del compromesso; coinvolgimento delle parti sociali». Poi Palme è morto, ucciso in circostanze misteriose esattamente trentanove anni fa, quando già la socialdemocrazia non se la passava troppo bene e i punti di riferimento globali erano Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

In quasi quarant’anni, la sinistra nordica ha attraversato diverse fasi, ma, come ha riportato David Leonhardt sul New York Times, il cerchio potrebbe essersi chiuso.

Per dirla come Antonello Venditti, «certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano». E se Leonhardt concentra la sua attenzione sul fenomeno danese Mette Frederiksen, già ampiamente analizzato da Linkiesta, e sul suo approccio legato all’immigrazione, questo cambio di impostazione, neanche troppo improvviso, è in corso praticamente in tutta la regione e copre numerosi temi.

Alla Conferenza di Monaco, i leader del Nord Europa e del Baltico si sono chiusi in una stanza dopo il terremoto causato dalla volontà statunitense di negoziare la fine della guerra in Ucraina direttamente con la Russia e ne sono usciti con un chiaro mandato nei confronti di Frederiksen, che ha presenziato a nome dell’intero blocco, più che mai unito dal punto di vista geopolitico, all’incontro di Parigi voluto da Emmanuel Macron. Pochi giorni dopo, lo stesso onore e onere è toccato al suo collega norvegese, Jonas Gahr Støre.

Frederiksen e Støre sono due dei tre leader di sinistra al momento in carica nel Nord Europa, ma se si dovessero tenere oggi delle elezioni, in tre paesi su cinque vincerebbe la sinistra, in uno, la Norvegia, sta clamorosamente rimontando (e sul perchè ci arriveremo fra poco), e in Islanda ha già vinto, motivo per cui Monaco di Baviera è stato anche il debutto per la neopremier Kristrún Frostadóttir.

 

 

Quello che sta succedendo nel Nord Europa, in totale controtendenza con il resto del continente, è dovuto a numerosi fattori, ma i due ai quali forse è giusto dedicare qualche riga in più sono l’esperienza di avere la destra (anche quella estrema) al governo e un forte cambio di registro da parte delle principali forze della sinistra moderata.

D’altronde, mentre i cinque grandi partiti di sinistra europei (Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito) hanno vissuto il loro periodo di difficoltà dal 2008 in poi (passando da una media del trentadue per cento di quell’anno al ventidue del 2022), i loro omologhi del Nord hanno subito il loro calo più consistente alla fine degli anni novanta. In entrambi i casi, il calo si è parzialmente arrestato attorno al 2017, ma mentre l’ascesa dell’estrema destra nell’Europa centrale è legata anche alla crisi del centro-destra moderato, al Nord i popolari e i liberal-conservatori non sono calati con la stessa intensità.

 

A cambiare sono state anche le alleanze: mentre in passato le coalizioni erano spesso orientate verso i Verdi e la sinistra radicale, oggi il blocco include spesso anche i liberali e i centristi. Il fenomeno del centrismo nordico è riuscito a garantire la tenuta anche nelle aree rurali, che in quasi tutto il mondo, durante gli ultimi anni hanno progressivamente spostato a destra le proprie preferenze.

In Svezia e in Finlandia sono in carica due governi di centro-destra, entrambi molto dipendenti dal voto dei partiti più estremi: a Stoccolma, gli Sverigedemokraterna, alleati con Fratelli d’Italia al Parlamento europeo, sono il partner esterno della coalizione di governo che sostiene Ulf Kristersson, mentre a Helsinki, il premier Petteri Orpo ha al suo fianco anche ministri appartenenti ai Perussuomalaiset (Partito dei veri finlandesi), un tempo alleati di Salvini, poi passati assieme ai conservatori dopo l’invasione dell’Ucraina su larga scala. Le stesse dinamiche, in passato, si sono osservate anche in Danimarca e Norvegia.

La destra al governo ha sostanzialmente dimostrato che non esistono soluzioni magiche, rapide e indolori al problema della sicurezza nei quartieri multietnici (un elemento che la sinistra per anni ha rimarcato, salvo poi non agire su un problema estremamente grave e sentito), mentre gli effetti dei tagli imposti si riverberano sui servizi alla persona messi a disposizione dai comuni sia in Svezia che in Finlandia.

 

È qui che fa scuola Mette Frederiksen, che sulla possibilità di conservare un welfare generoso si è giocata un’ampia parte della propria reputazione a sinistra, anche ora che si ritrova di fronte alla necessità di ridiscuterne alcuni aspetti con gli alleati di governo Moderati e Liberali. Chi osserva da vicino la politica danese, però, sa che c’è una strategia alle spalle: Frederiksen è ora sostenuta da una maggioranza di larghe intese e nel 2022 ha scommesso sul fatto che i voti li avrebbe persi a beneficio degli alleati di sinistra, mentre la destra si sarebbe ancora ritrovata divisa in numerose fazioni. Ed è esattamente quello che sta succedendo, dato che alle elezioni europee e nei sondaggi di questi mesi è in forte crescita il Partito popolare socialista (SF) di Pia Olsen Dyhr, che con Mette Frederiksen condivide la linea pro-Ucraina e le perplessità sul multiculturalismo e sull’immigrazione.

In Norvegia il fenomeno è ancora più recente e improvviso, anche se la conferma si potrà vedere solo nel giro di alcuni mesi: a Oslo è in carica dal 2021 il premier Støre, già Ministro degli Esteri e fino a poche settimane fa sostenuto anche dai centristi agrari del Senterpartiet, uscito dalla coalizione di governo dopo l’intenzione di far approvare alcune delle direttive europee sull’ambiente. La crisi si è verificata in un momento di profonda impopolarità dell’esecutivo che, proprio come in Germania, ha dovuto guidare il paese attraverso la crisi economica e l’inflazione legate all’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022: Støre, esponente moderato del partito, non esattamente un leader carismatico, due anni fa ha visto per la prima volta dopo un secolo il Partito Laburista farsi superare ad una consultazione nazionale (erano le amministrative) e i sondaggi indicavano anche un probabile sorpasso sia dei conservatori che del Fremskrittpartiet, un partito libertario di destra con posizioni decisamente critiche sull’immigrazione. Per sostituire il Ministro dell’Economia centrista, Trygve Slagsvold Vedum, il premier ha richiamato nel ruolo, dopo oltre un quarto di secolo, il suo predecessore, nonchè ex Segretario Generale della Nato, Jens Stoltenberg.

Stoltenberg è noto per aver imbastito una politica economica fortemente keynesiana in risposta alla crisi finanziaria del 2008-2009, è un europeista e atlantista di specchiata fede, e sull’immigrazione ha sempre difeso la strategia volta ad accettare nel paese solo la quota di rifugiati stabilita dalle organizzazioni internazionali. Nei giorni successivi alla sua nomina, il Partito Laburista è passato dal diciotto al venticinque per cento nei sondaggi, e il blocco dei partiti di sinistra potrebbe imporsi se i partner minori del centro-destra non dovessero superare la soglia alle elezioni di settembre.

Anche in Svezia e in Finlandia, dove i socialdemocratici sono all’opposizione, la narrazione sta cambiando rapidamente. Ad Helsinki, archiviata la stagione di Sanna Marin (decisamente più popolare all’estero che in patria), Antti Lindtman è andato all’assalto dei tagli imposti dal governo di Orpo, mantenendo però la stessa linea filo-Ucraina voluta da Sanna Marin e ribaltando l’orientamento di non ostilità alla Russia presente ancora durante gli anni in cui al vertice del partito vi era la presidente Tarja Halonen. In Svezia, a giugno, il congresso socialdemocratico di Göteborg (città operaia e socialdemocratica per eccellenza) sancirà una stretta sull’immigrazione, una linea meno attendista in ambito internazionale, un orientamento favorevole al nucleare e si ipotizza anche una nuova campagna pro-Euro dopo il referendum fallito nel 2003.

In Islanda, la neopremier Frostadóttir è attesa, in questi giorni, alla prima prova del fuoco, dopo la rivelazione di abusi da parte di alcune compagnie di pulizie nei confronti di diversi dipendenti, per lo più stranieri. Incalzata dai sindacati, Frostadóttir ha lasciato intendere di voler intervenire in difesa delle istanze dei lavoratori. Dal punto di vista internazionale, il suo governo, pur con al suo interno una forza euroscettica, ha promesso che entro la fine della legislatura si terrà un referendum per la riapertura dei negoziati per l’ingresso nell’Unione europea.

Se la nuova linea atlantista dei socialdemocratici nord-europei è da mettere in relazione al pericoloso vicino di casa, quella Russia con cui i rispettivi paesi confinano via terra o via mare, la svolta in termini di integrazione e sicurezza è un passaggio in grado di spostare il baricentro anche a Strasburgo e Bruxelles.

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