L’ora più buia. Ucraina, Israele, Taiwan combattono un’unica battaglia in difesa del mondo libero

Russia, Cina, Iran, e Corea del Nord stanno formando un’asse delle autocrazie sempre più coeso con l’obiettivo di sfidare l’ordine internazionale post 1945.

15,11,2024 Gianni Vernetti, linkiesta,it lettura4’

Le democrazie devono riconoscere la natura sistemica della minaccia e agire insieme, evitando divisioni interne o errori strategici

Il futuro del mondo libero dipende dall’esito del confronto fra queste quattro autocrazie e queste quattro democrazie: la Russia e l’Ucraina; la Cina e Taiwan; l’Iran e Israele; la Corea del Nord e la Corea del Sud. E i quattro conflitti in corso, attualmente dispiegati con modalità differenti (caldi, ibridi, asimmetrici e freddi), sono compiutamente interrelati fra loro. L’asse delle autocrazie esiste ed è una realtà molto più coesa della comunità delle democrazie. L’alleanza senza limiti fra Russia e Cina, annunciata poche ore prima dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina e che in quel momento aveva ancora contorni, ampiezza e dimensione indefinite, sta diventando una realtà consolidata.

La Cina sostiene lo sforzo bellico di Mosca con la fornitura di tecnologie dual use, droni commerciali, forniture di semiconduttori e macchinari utensili per la produzione bellica; nonché enormi quantità di smokeless powder, grazie alla quale la Russia potrà produrre fino a ottanta milioni di munizioni. Gli investimenti cinesi in Russia sono quadruplicati dall’inizio della guerra, nel sistema bancario ed energetico, soprattutto grazie ai contratti di acquisto di petrolio in yuan e Mosca ha aperto alle navi cinesi la rotta del Nord nel Mare Artico.

Sono poi aumentate esponenzialmente le azioni di interoperabilità fra gli eserciti russo e cinese spesso allargate a quello iraniano: si tratta delle manovre militari congiunte russo-cinesi nel Mar Cinese Orientale di fronte alle isole giapponesi Senkaku di pochi mesi fa e delle esercitazioni russo-cinesi-iraniane nello stretto di Hormuz dello scorso luglio.

Il 10 novembre la Russia e la Corea del Nord hanno poi ratificato il Trattato di Partnership Strategica, chefornisce il quadro giuridico per il dispiegamento delle forze nord-coreane nel Kursk. Il Trattato include una clausola di difesa reciproca e prevede che ciascuna parte debba intervenire in aiuto dell’altra in caso di attacco armato. Quanto firmato da Vladimir Putin e Kim Yong-un, e pochi giorni fa ratificato dalla camera alta e bassa del parlamento russo, è dunque un accordo con una sorta di articolo 5 già attuato preventivamente nel conflitto ucraino e che legittima l’utilizzo delle forze armate nord-coreane nel teatro ucraino.

È poi altamente improbabile che tale salto di qualità, con il dispiegamento di oltre diecimila soldati nord-coreani in Europa, sia stato adottato senza il via libera di Pechino: la Corea del Nord è uno stato vassallo della Repubblica Popolare Cinese, dalla quale dipende totalmente per la sua sopravvivenza economica e militare. La Repubblica Popolare Cinese sta poi osservando da molto vicino l’andamento del conflitto in Ucraina e la qualità delle relazioni internazionali in sostegno alla guerra di liberazione dell’Ucraina, insieme all’esito del conflitto stesso saranno determinanti per scelte che Pechino adotterà nello stretto di Taiwan.

Russia e Cina rappresentano, poi, la lifeline che ha permesso al regime degli ayatollah di sopravvivere nonostante i lunghi anni del regime sanzionatorio internazionale: gli acquisti del greggio iraniano diventato oramai praticamente un esclusiva di Pechino e le massicce forniture belliche di Teheran a Mosca, rappresentano un sostegno estremamente rilevante per la traballante economia iraniana.

Ma c’è di più, come ha anche ben rilevato Anne Applebaum nel suo ultimo libro “Autocrazie”, da poco tradotto e pubblicato in Italia, l’alleanza fra Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, ha un obiettivo di lungo periodo: sfidare le democrazie liberali e mutare in modo radicale il sistema delle relazioni internazionali nato sulle ceneri del secondo conflitto mondiale. E per raggiungere l’obiettivo questi quattro paesi non esitano a promuovere una narrazione pressoché identica: c’è sempre una minaccia esterna da contenere (la Nato, l’attacco ai valori tradizionali, il sionismo) e c’è sempre un improbabile spazio vitale da conquistare o da riconquistare, quasi sempre con azioni arbitrarie di riscrittura della storia.

La Russia vorrebbe tornare indietro nel tempo per impedire la grande tragedia geopolitica del dissolvimento dell’impero sovietico; la Cina riscrive la storia sostenendo che una porzione enorme delle acque territoriali di Filippine, Vietnam e Indonesia, l’arcipelago giapponese di Okinawa e Taiwan appartengono alla Cina da almeno un millennio; l’Iran vuole «estirpare il cancro sionista», negando la presenza ebraica di oltre tre millenni nei territori sui quali è nato nel 1948 lo Stato di Israele.

Di fronte a questa sfida sistemica l’occidente rischia di compiere tre errori che potrebbero entrambi rivelarsi esiziali.

Il primo è negare l’esistenza dell’asse delle autocrazie non comprendendo appieno la natura sistemica della minaccia in corso; il secondo è dividersi (fra Europa e Usa e anche fra gli alleati europei della Nato) sulle modalità di reazione politica e militare alle sfide ibride in atto; il terzo ritenere che sia possibile facilmente “dividere la pratica”, in particolare isolando la minaccia della Russia in Europa dalla sfida rappresentata dalle altre autocrazie. Quest’ultimo errore strategico può rappresentare un grande rischio per tutto l’occidente. E questa potrebbe anche essere la principale tentazione della nuova amministrazione di Donald Trump.

Le prime nomine di questi giorni, in particolare quelle con un impatto rilevante sulla politica estera, lasciamo intravedere esattamente questo scenario. Il nuovo Segretario di Stato Marco Rubio e il nuovo capo del National Security Council Michael Waltz, hanno entrambi una posizione molto assertiva nei confronti di Cina e Iran e meno chiara sulla vicenda Ucraina. Sulla stessa questione ucraina incombe poi la ripetuta volontà del quarantasettesimo presidente di «far finire la guerra in ventiquattro ore» e di non considerare un tabù la cessione a Mosca dei territori attualmente occupati, insieme alla non inclusione dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica.

Rischiamo dunque di assistere nei prossimi mesi non soltanto a una valorizzazione degli aspetti più transazionali dell’Alleanza Atlantica (con la richiesta di un maggiore impegno economico nelle spese per la difesa e per gli aiuti bellici da parte degli alleati europei), ma anche a un progressivo disimpegno statunitense dal fronte europeo, per concentrarsi sulla competizione sistemica con Pechino e al contenimento dell’Iran.

Volodymyr Zelensky, che si conferma essere un leader intelligente, ha ben colto il possibile nuovo clima offrendo a Trump la disponibilità futura a sostituire con truppe ucraine le forze americane stanziate in Europa e il presidente polacco Donald Tusk (forte anche del sul quattro per cento del prodotto interno lordo impegnato nella spesa militare) non ha esitato a proporre una coalizione europea di volonterosi per incrementare il sostegno militare alla guerra di liberazione dell’Ucraina.

Ciò che l’intera comunità delle democrazie, fra i due lati dell’Atlantico e nell’indo-Pacifico dovrà ora comprendere è che una sconfitta dell’Ucraina, e un rallentamento del suo processo di integrazione euro-atlantica, non sarà un fatto esclusivamente europeo, ma produrrà una serie di eventi tellurici su scala globale che rafforzeranno e motiveranno l’asse delle autocrazie, nel ritenere che la violazione di confini consolidati e nuove avventure militari possano diventare un new normal nello stretto di Taiwan, come nella penisola di Corea e nel Golfo Persico.

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