“Il Patto di stabilità è stato imposto all’Europa dal 5% degli elettori tedeschi”

Il direttore dell'Istituto Max Planck per lo studio delle società (Colonia) spiega in che modo la Germania ha condizionato la trattativa sul Patto di stabilità

02.01.2024 - int. Lucio Baccaro ilsussidirio.net lettura8’

Un dazio ideologico pagato alla salvaguardia dell’austerità fiscale tedesca. E una (nuova) recessione alle porte. È la sintesi di Lucio Baccaro, sociologo ed economista, direttore dell’Istituto Max Planck per lo studio delle società (Max Planck Institut für Gesellschaftforschung, MPIfG) con sede a Colonia.

Per capire cosa è successo nella trattativa sul Patto di stabilità e crescita (PSC), del quale, va detto, si aspettano ancora importanti dettagli, occorre andare in Germania. È là che si sono decise, indirettamente, le sorti del negoziato. Due i paradossi.

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Il primo, la sentenza di Karlsruhe contro le poste fuori bilancio non ha indebolito, ma rafforzato la posizione negoziale del ministro delle Finanze Christian Lindner. Il secondo, è stata una ragione tutta di politica interna tedesca ad imporre l’accordo europeo.

Non solo. Baccaro spiega in questa intervista come e perché il nuovo PSC sembra fatto apposta per causare una recessione europea. Oltre quella già in atto.

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Il ministro Lindner aveva dichiarato che le vecchie regole erano “rigorose sulla carta ma non nell’applicazione”. Bisognava rimediare e Berlino ha ottenuto regole ancora più stringenti. Perché questo rigore a tutti i costi?

Ha vinto la classica impostazione tedesca. Secondo questa visione, il problema del PSC è che le regole non sono mai sufficientemente chiare, e possono essere trasgredite attraverso interpretazioni ad personam da parte della Commissione. Per evitarlo ci vogliono degli automatismi.

La Germania ha un enorme bisogno di investimenti, ma se per farli occorre ricorrere alle poste fuori bilancio, chiunque avrebbe capito il senso della decisione della Corte Costituzionale del 15 novembre: le regole vigenti non vanno bene. O no?

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La decisione di Karlsruhe va capita bene per non essere fraintesa. I giudici hanno stabilito che utilizzare fondi di emergenza per far fronte ad emergenze di altra natura senza preventiva approvazione parlamentare è incostituzionale. Di conseguenza – questo il messaggio politico – o il Parlamento cambia le regole che i giudici sono chiamati a far rispettare, oppure il Parlamento e il Governo devono fare politica fiscale rispettando lo Schuldenbremse (freno all’indebitamento). E sono limiti rigidissimi: lo 0,35% a livello federale e, dopo la riforma del 2020, lo zero per i singoli Länder.

Un intermezzo necessario: che rapporto c’è tra il freno al debito tedesco e il Trattato Fiscal Compact europeo?

Lo Schuldenbremse è stato introdotto nella Costituzione nel 2009. Prima c’era una Goldene Regel (golden rule) che secondo Berlino non ha funzionato. Il Fiscal Compact è di fatto l’estensione dello Schuldenbremse agli altri Paesi dell’area euro.

Torniamo all’Alta Corte.

Il freno al debito prevede clausole di eccezione che consentono la creazione, in caso di necessità come le pandemie, di fondi di emergenza extra-budget. Il governo ha trasferito dal fondo di emergenza adibito al Covid 60 mld non spesi per il contrasto alla pandemia in un altro fondo extra, quello per la transizione climatica. Questa operazione, hanno detto i giudici, è incostituzionale. Di conseguenza ciò che il governo vuole fare con quei soldi non si può più fare.

E che cosa è successo con il WSF, il fondo per la stabilizzazione economica?

Dopo la decisione di Karlsruhe il team legale di Lindner ha deciso che il WSF, un altro veicolo extra-budget da 200 mld usato per finanziare la riduzione dei prezzi energetici per le imprese, andava chiuso perché era anch’esso fuorilegge.

Questo significa rivedere molte importanti decisioni di politica economica.

Certo. In queste condizioni o il governo non fa più quello che ha previsto di fare, oppure, se decide di farlo, deve, entro i vincoli dello Schuldenbremse, finanziare le misure in altro modo. Aumentando le tasse o tagliando altre spese.

Proprio in quei giorni Lindner stava trattando con i colleghi europei la revisione del PSC. Perché la decisione di Karlsruhe non ha indebolito la sua posizione negoziale?

È l’aspetto più paradossale di tutta la vicenda. Dopo la sentenza quali erano le strade possibili? La via maestra era quella di un riforma costituzionale dello Schuldenbremse, magari tornando alla versione precedente, modificata. Però una modifica costituzionale richiede una maggioranza qualificata dei due terzi, che in questo momento non c’è. L’altra strada era quella di dichiarare un’altra emergenza – climatica, oppure bellica – in modo tale da non applicare le regole del freno. Il governo però non ha ritenuto opportuno dichiarare un’emergenza per il quinto anno consecutivo.

A questo punto che cosa è successo?

È subentrato un importante fattore politico interno. Il Partito liberale democratico (FDP) di Lindner sta perdendo consensi in maniera molto forte e attualmente, secondo i sondaggi, si aggira intorno al 5%, che è la soglia di sbarramento per entrare nel Bundestag. Lindner ritiene che il modo per riconquistare gli elettori “core” del suo partito, un elettorato fiscalmente conservatore che sta migrando in massa verso AfD, sia quello di assumere una posizione intransigente sulle questioni fiscali. Interne ed europee.

Allora è questo che spiega l’esito della trattativa sul PSC.

È così. In Europa Lindner ha lavorato per impedire ad altri di fare ciò che lui e il suo partito non possono fare in Germania. Quindi la sentenza della Corte Costituzionale ha finito per rafforzare fortemente la posizione rigorista di Lindner, e non il contrario.

Dopo la sentenza i partiti hanno trovato una soluzione politica sul da farsi?

Dicono di aver raggiunto un compromesso in cui rispettano lo Schuldenbremse, quindi sono pronti a ridurre le spese e aumentare le entrate fiscali, salvaguardando le priorità di ognuno: per la SPD la spesa sociale, per i Grüne (verdi) non solo la transizione ecologica ma anche la possibilità di sovvenzionare con soldi pubblici la creazione di un hub tedesco per la fabbricazione di microchips. Questo è molto importante per la Germania, perché vuol essere la risposta tedesca all’Inflation Reduction Act americano.

In che cosa consiste il progetto?

A Berlino si sono dati un programma di sussidi per attirare imprese multinazionali che producono microchips, tra queste Intel, che dovrebbe creare una fabbrica a Magdeburg e altre nella Germania orientale. Gran parte di questi investimenti veniva pagata con i soldi del fondo che è stato dichiarato fuorilegge.

Il compromesso politico trovato in coalizione è sufficiente?

No, perché la coperta rimane corta. Le infrastrutture di Deutsche Bahn (le ferrovie tedesche, nda), ad esempio, sono in una situazione disastrosa e 13 mld previsti per la ricapitalizzazione sono a rischio.

AfD e CDU, che attraggono l’elettorato di Lindner, sono anch’essi ideologicamente ordoliberali, dunque rigoristi sui conti?

Sì. L’impostazione della CDU con Merz è questa. Quanto basta per indurre Lindner a mostrarsi ancora più rigido e rigoroso, per differenziarsi.

Il governo Scholz è a rischio?

A mio avviso, no. La coalizione “semaforo” (rosso-giallo-verde, nda) ha perso circa 20-25 punti percentuali: nel 2021 la SPD aveva il 25%, adesso è intorno al 14%, superata da CDU ma anche da AfD che attualmente è il secondo partito; i liberali sono quasi sotto la soglia di sbarramento e i verdi non stanno bene. Paradossalmente, il fatto che tutti e tre gli attori si siano indeboliti, rafforza la coalizione. Nessuno di loro vuole rischiare nuove elezioni.

Il “semaforo” arriverà alla scadenza naturale della legislatura?

È molto probabile. Stando così le cose, nel 2025 probabilmente la CDU vincerà le elezioni e non si può escludere che faccia un accordo politico con AfD.

Non c’era un cordone sanitario invalicabile?

No: AfD già vince nelle elezioni regionali e locali e futuri accordi non sono da escludere.

Qual è la sua valutazione dell’accordo finale sul PSC ottenuto il 19 dicembre?

Gli obiettivi della riforma erano sostanzialmente due: aumentare la sostenibilità dei debiti pubblici nazionali e favorire gli investimenti pubblici degli Stati. Mi pare che nessuno dei due obiettivi sia stato raggiunto.

Per quale ragione?

La sostenibilità del debito viene perseguita attraverso il vecchio approccio basato sul surplus primario invece che sulla crescita. In tal modo tutto dipende dal tasso di interesse pagato sullo stock di debito: se il tasso di crescita è maggiore del tasso di interesse, il debito tende a ridursi in rapporto al Pil. Nei vent’anni precedenti al Covid questo è avvenuto per tutti i Paesi OCSE tranne l’Italia.

Ma per aumentare la sostenibilità del debito pubblico bisogna stimolare la crescita economica.

È l’altro aspetto deludente. Stimolare gli investimenti pubblici che ristagnano in tutti i Paesi europei, soprattutto in Italia e in Germania, era un obiettivo prioritario, e su questo non si è fatto nulla.

Cosa bisognava fare?

Come minimo si sarebbe dovuta introdurre la golden rule, scorporando gli investimenti dal computo del deficit. Dunque siamo daccapo.

Le piaceva la proposta della Commissione?

No, perché lasciava troppo spazio alle tecnocrazie, alla Commissione e ai Fiscal Boards nazionali. Ma almeno introduceva il principio che per stabilizzare il rapporto debito/Pil servono percorsi di aggiustamento diversificati, non necessariamente una riduzione a tappe forzate. Invece quella impostazione è stata anch’essa stravolta dalle misure aggiuntive volute dalla Germania.

L’Italia dovrà ridurre il rapporto debito/Pil dell’1% l’anno, circa 20 mld l’anno. In più il nostro limite massimo di deficit non è più il 3% ma l’1,5%. Che scenario si prospetta?

Se lei considera che nel 2022 l’Italia aveva un deficit del 5%, ridurlo all’1,5% sia pure gradualmente in 4 anni è una stretta fiscale considerevole. Questo senza contare la nuova clausola di riduzione del debito di 1% del Pil all’anno. Il nuovo accordo è il classico caso di politica fiscale prociclica, proprio ciò che bisognava evitare. È l’ennesima occasione persa dalle “élites” europee. Metta il termine tra virgolette.

Necessità di investimenti da una parte, clausole e parametri rigidi dall’altra. Qual è il suo scenario?

Se gli anni precedenti ci insegnano qualcosa, politiche fiscali procicliche aumentano piuttosto che diminuire il rapporto debito/Pil. Inoltre sappiamo che queste politiche, volte a creare surplus primari abbondanti, si traducono in ristagno degli investimenti pubblici. Questo ci dice la storia dei debiti sovrani; di conseguenza, è legittimo ritenere che il prossimo futuro sia già scritto.

Può essere più esplicito?

Se le nuove misure fossero applicate, le tendenze recessive che sono già evidenti diventerebbero più chiare e forti. La riforma del PSC potrebbe causare una recessione su scala europea. Per quanto riguarda la Germania, l’applicazione della sentenza dell’Alta Corte ridurrà ulteriormente la crescita tedesca, che già era negativa di qualche decimale. In Italia continuerà la stagnazione trentennale.

Lei dirige un importante istituto di ricerca sociale. Cosa vede dal suo osservatorio?

Sto facendo una serie di interviste con importanti attori della sfera economica e di quella politica, ed emerge in modo consistente che i rappresentanti dell’industria, soprattutto le grandi industrie esportatrici, così come i rappresentanti dell’associazione dei produttori automobilistici, sono molto lontani dall’austerità fiscale che perseguono FDP e CDU.

Come si spiega?

Sanno benissimo che una componente decisiva del modello di crescita tedesco, l’accesso al gas russo, è venuta meno, e questo li ha indotti ad accelerare una transizione green che avevano già previsto, ma che pensavano potesse essere più dilazionata nel tempo. Sanno perfettamente che senza l’aiuto dello Stato la transizione ecologica non è realizzabile. Questo, si badi, non depone a sfavore della transizione, piuttosto è una ragione in più per chiedere maggiori aiuti di Stato. Va detto che i sussidi sono sempre piaciuti molto all’industria tedesca e non solo.

C’è anche un problema di infrastrutture carenti, non solo di aiuti alle imprese.

Certo. Dai miei colloqui è emerso che davanti alla decisione di Karlsruhe gli industriali avevano in mente una strada che i partiti di governo non hanno intrapreso: “europeizzare” alcuni importanti capitoli di spesa, a cominciare da quelli che avrebbero consentito alla Germania di mantenere più facilmente il primato nell’industria europea. Come? Creando un nuovo Next Generation EU su temi climatici per finanziare la transizione, che prevedesse capitoli nazionali, e via dicendo, secondo lo schema che ormai conosciamo.

Dunque aiuti, aiuti e ancora aiuti pubblici. Ma senza violare il comandamento dello Schuldenbremse. Non solo “noi” tedeschi, ma anche gli altri. A che cosa siamo di fronte secondo lei?

Ad un super derisking State su scala prima tedesca e poi europea.

Oggi la Norvegia fornisce alla Germania il 60% del suo fabbisogno di gas. A nessuno viene in mente di riaccendere le centrali nucleari?

Dal punto di vista amministrativo sarebbe un percorso lunghissimo, e costruirne di nuove richiederebbe numerosi anni; per la gran parte dei politici e degli industriali tedeschi è una strada chiusa.

Vuol dire che la transizione à la Timmermans era ed è perfettamente condivisa?

In generale sì. Dobbiamo andare verso fonti energetiche alternative, dicono gli esponenti del mondo produttivo; ma se è così, abbiamo un problema di costi. Dunque lo Stato ci aiuti a finanziare i costi aggiuntivi. Era questo il senso del WSF.

Meno rigoristi di Lindner.

Esatto. E sulla riforma del PSC erano favorevoli alla proposta della Commissione. Questo conferma che la linea tedesca sul PSC va totalmente attribuita ad un partito che si sente minacciato nel suo core business, che è la salvaguardia dell’austerità fiscale. Non solo. Quando è nata la coalizione “semaforo”, era evidente che mettere Lindner alle Finanze sarebbe stato un problema per la rinegoziazione del Patto.

Allora perché Lindner ha occupato quella casella?

Era convinzione di tutti che le questioni europee fossero meno importanti di quelle tedesche.

(Federico Ferraù)

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