Dopo un mese può vedere il suo bambino di 20 mesi in cella e per poche ore
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Qatargate e i metodi infami della giustizia: torturano Kaili perché non hanno prove
Gian Domenico Caiazza — 7 Gennaio 2023 ilriformista.it
Se nascondi sacchi di denaro contante in casa, qualcosa di poco lecito hai sicuramente commesso. E se sei un Parlamentare, cioè un rappresentante del popolo, intanto devi renderne conto immediatamente ai tuoi elettori. Ma dal momento che un indizio grave di un ancora ignoto reato non è di per sé un reato, è compito di chi investiga scoprire quale sia il reato che hai molto verosimilmente commesso, o concorso o agevolato a commettere.
Ed è proprio qui, esattamente in questo punto della vicenda, che si biforca la strada tra paesi civili e non.
In un Paese civile, che fonda cioè il proprio patto sociale sull’habeas corpus, sulla presunzione di innocenza, sull’onere probatorio a carico dell’accusa, non dovrebbe essere consentito che accada quel che sta accadendo in Belgio. E cioè che quelle persone cui son stati trovati i borsoni gonfi di soldi vengano arrestate prima di aver accertato, con un corredo indiziario più vicino alla certezza che al sospetto, la ragione, la provenienza e la destinazione di quei borsoni di denaro contante. Salvo che detenere denaro contante in misura incongrua non sia già di per sé un reato, cosa che non mi risulta essere.
Sappiamo poco di cosa esattamente si contesti agli indagati, e questo di per sé non sarebbe un fatto grave, anzi è certamente un fatto virtuoso – per noi del tutto inconsueto – la tenuta del principio di segretezza delle indagini. Ma ad una condizione: che invece sia chiaro agli indagati cosa esattamente gli si stia contestando, e sulla base di quali elementi di indagine. Perché se nemmeno agli indagati dovesse essere chiaro di cosa l’eroico giudice istruttore in concreto li accusa – date, luoghi, persone, atti concreti sintomatici del o dei reati ipotizzati- le cose cambiano assai. E cambiano per la semplice ragione che quegli indagati sono stati privati della libertà personale; la qual cosa -nei paesi civili- è lecito che avvenga solo eccezionalmente, non certo perché detenere borsoni di denaro contante sia una cosa assai disdicevole. Occorre severamente indagare sulle ragioni di quei borsoni, senza sconti e senza riguardi per nessuno. Ma se si sceglie di fare il passo della privazione della libertà, nei Paesi civili si invertono le regole del gioco: sei tu investigatore, sei tu giudice che devi rendere accuratamente ragione di questo passo gravissimo, spiegando bene – soprattutto- perché esso fosse indispensabile.
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Ora, suggerisco di leggere con attenzione l’intervista del Corsera all’avvocato difensore della ormai ex vice-presidente del Parlamento Europeo Eva Kaili, alla quale solo dopo 28 giorni è stato concesso di passare – in carcere- un paio di ore con la figlia di 20 mesi (anche il padre è in carcere); cosa che -in un paese civile – sarebbe spiegabile, forse, solo se la mamma fosse, chessò, indagata perché sospettata di aver assassinato il fratellino, non di aver avuto in casa (ma lei nega) 600mila euro in contanti, non si sa bene ancora perché. Ed infatti il difensore, alla domanda di come sia stata possibile una simile vergogna, risponde garbatamente: “Mi sono fatto l’idea che probabilmente non le permettevano di vedere la bambina per farle pressione affinchè confessasse, ammettesse di aver commesso qualcosa. Ma la signora Kaili non ha nulla da confessare perché è completamente estranea a ogni genere di accusa”.
Si, pensiamo tutti la stessa cosa, e senza il “probabilmente”; e dunque, in un Paese civile, il giudice dovrebbe essere chiamato a rispondere di una simile vergogna, salvo a ritenere che la bambina di 20 mesi fosse depositaria o potenziale tramite di informazioni sui borsoni di denaro, giusto? E invece, a leggere la stampa, tutta Europa guarda con ammirazione a questa indagine, che più passano i giorni e meno appare chiara nei suoi esatti contenuti. Ma se tu arresti e impedisci per un mese ad un padre ed a una madre di vedere la figlia di 20 mesi anche solo in carcere, oltre che ad usare metodi vergognosi ed infami, significa che hai molto poco in mano, oltre i borsoni di denaro, e vuoi che te lo raccontino gli indagati stessi, sotto la pressione delle sbarre (ma allora tiriamogli via direttamente le unghie, che facciamo prima), perché tu non hai saputo, ad oggi, dare un seguito investigativo concreto al più che legittimo sospetto.
Ed infatti il difensore ci informa che “nell’udienza che si è svolta il 22 dicembre a Bruxelles, il giudice istruttore Michel Claise ha affermato di non avere le prove che sostengono l’accusa di corruzione contro Eva Kaili“. Beh, fantastico! E quando rompi le regole dello Stato di diritto, noi lo sappiamo benissimo, la deriva diviene incontrollabile. Come, ad esempio, la notizia di conti milionari esteri della Kaili, che -ci informa il difensore- le banche interessate hanno smentito ufficialmente e formalmente, ma continua a circolare, come usa farsi in questi casi con il fango nel ventilatore. O come l’appartamentino in montagna di Figà Talamanca, che però ci paga il mutuo.
Ma c’è grande eccitazione giustizialista, intorno a questa indagine, e tanta voglia del nuovo “Di Pietro belga”, e della nuova “Mani Pulite” europea. Cosicchè questa storia è diventata, a tutto tondo, un “italian job”, sia dal lato degli indagati che per il marchio di fabbrica di questa indagine. Che effettivamente ricorda tanto, e forse perfino in peggio (ove mai possibile), i gloriosi anni 90, con Paolo Brosio tuti i giorni a fare il gazzettiere della Procura su chi fosse stato arrestato di bello quella mattina, e chi stesse per esserlo. E magari anche chi si fosse suicidato. Orgogliosi?
Résister, résister, résister!
Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Itali