Caro Obama, lo slogan d'addio giusto è «No, we did not»
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Promesse non del tutto mantenute. Lavoro fatto per élite e Wall street. Solo spiccioli alla gente comune. Sono state le condizioni ideali per Trump. Ecco perché il discorso finale di Barack è troppo ottimistico. (tabelle nel testo che segue)
MARIO MARGIOCCO Lettera 43, 12.1.2017
Lo scenario era Chicago, come all’inizio, la sera del 4 novembre 2008. La più americana delle grandi città d’America, patria d’elezione di Barack Obama e da 90 anni capitale vera della comunità afroamericana. Allora al Grant Park, ai bordi del lago Michigan, con gli abiti leggeri consentiti da quella "estate indiana" che dopo una prima gelata a ottobre regala in genere temperature miti fino a metà novembre. La folla scandiva, e il presidente ripeteva lo «Yes, we can» della campagna elettorale vinta quel giorno.
MANCA UN PO' DI MODESTIA. Adesso, per il discorso d’addio al popolo americano di martedì 10 gennaio 2017 ci sono state le più calde mura della sala congressi della McCormick Place, quattro chilometri più a Sud, fuori -8° con l’effetto vento, a Chicago una garanzia. «Yes, we did» è stato lo slogan intonato dallo stesso Obama. Per la serie "abbiamo mantenuto le promesse", che erano di «Hope and change». E alcune sì, sono state mantenute. Altre no. Ma l’insieme della presidenza, visto com'è finita, e cioè con la vittoria di Donald Trump, reclama - come hanno osservato numerosi osservatori americani che pure non si erano accorti, in genere, delle potenzialità di Trump - un più modesto «No, we did not», o almeno un «Maybe we did not do it all the way».
Pil Disoccupazione Era Obama
Obama non ha fatto un discorso trionfalistico, anzi: insistendo molto sulla necessità di non abbandonare il sogno progressista ed egualitario ha di fatto ammesso che questo sogno non esce dagli otto anni della sua presidenza in modo trionfante. Ha fatto un appello sacrosanto all’unità, nonostante le differenze di razza. Sarebbe stato anche opportuno farlo per le differenze di censo e di status sociale, visto che si sono - non per sua sola responsabilità – esacerbate durante la sua presidenza.
ARRIVANO I WHITE SUPREMACIST.Insomma: partecipate alla politica, lottate in nome dei vostri ideali, non possono morire e non moriranno, l’America è di tutti. Non c’è dubbio che con Trump ci sono i white supremacist e uno, nella persona del consulente speciale e capo della fase finale della campagna elettorale, Stephen Bannon, si insedierà presto alla Casa Bianca. Il white supremacist crede che gli Stati Uniti siano stati creati dagli immigrati europei e che quella deve rimanere la tradizione del Paese, e lo fa spesso in modo perentorio. Gli altri devono adeguarsi. Sarà anche vero che l’impronta dominante è europea, ma il mondo cambia, e gli americani non-europei hanno gli stessi diritti.
Nel discorso di Obama si sente, e venendo dal primo afroamericano salito alla presidenza è più che giustificato, una enfasi sul ruolo delle minoranze. Va detto tuttavia che non si può spiegare la vittoria di Trump, come molti fanno, e come il discorso di Obama potrebbe lasciare intendere, con un voto a sensibile componente razzista. Delle 3.100 contee americane, quasi mille che hanno votato Obama almeno una volta - nel 2008 o nel 2012 - hanno poi scelto Trump nel 2016. Insomma, non si può essere razzisti a intermittenza.
CRESCENTE DISEGUAGLIANZA.La spiegazione di quella che è stata tutto sommato una mesta serata a Chicago la dà forse un articolo uscito sul Project Syndicate, fornitore di analisi di alto livello di protagonisti della scena politica ed economica, a firma del Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz, quanto di più progressista esiste sulla scena accademica internazionale. Stiglitz è chiarissimo: «Una crescente diseguaglianza, un sistema politico bacato e un governo che parlava come se stesse lavorando per la gente comune mentre invece lavorava per le élite hanno creato le condizioni ideali perché un candidato come Trump potesse sfruttarle».
E CHI ERA NEI GUAI COL MUTUO?È un giudizio severissimo su Obama, ma chi ha seguito nei fatti passo dopo passo, a partire dal salvataggio di Wall street «dove Obama ha salvato non solo le banche ma anche i banchieri, gli azionisti e gli obbligazionisti», dice Stiglitz, offrendo invece a chi era nei guai con il mutuo «solo spiccioli», non può negare che queste parole dicano il vero più dello slogan «Yes, we did». E spiegano molto. A far vincere Trump è stata la speranza - assai azzardata, va detto - che possa portare lui quel cambiamento finora solo promesso.
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