F-35, che cosa è successo tra Donald Trump e Lockheed Martin
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Se sei il presidente degli Stati Uniti sei anche in grado di far perdere 3,5 miliardi di dollari a un’azienda con un semplice tweet. Il presidente infatti non può bloccare il programma nemmeno con un ordine esecutivo,
Emanuele Rossi Formiche.net 14.12.2016
Se sei il presidente degli Stati Uniti sei anche in grado di far perdere 3,5 miliardi di dollari a un’azienda con un semplice tweet. È quello che è successo lunedì 12 dicembre alla Lockheed Martin, società americana del settore aerospaziale, dopo che lunedì il presidente eletto Donald Trump aveva twittato contro il programma F-35, quello che ha portato allo sviluppo e costruzione del più potente jet da combattimento di tutti i tempi.
Il costo è “fuori controllo” ha scritto Trump, promettendo che miliardi di dollari verranno risparmiati nel settore militare a partire dal 20 gennaio, ossia la data del suo effettivo insediamento alla Casa Bianca. Risultato, le azioni della Lokheed Martin hanno perso in apertura il 5,4 per cento (poi recuperato al 2,47 nel corso delle giornata). Stando ai listini, ognuno dei 140 caratteri inserito da Trump nel suo tweet è costato alla ditta di Bethesda (in Maryland) 25 milioni di dollari – nei conteggi andrebbero inseriti anche gli effetti analoghi subiti per esempio dalla Northrop Gunman e dall’inglese BAE Systems, coinvolte entrambe nel programma e rispettivamente scese del 4 e dell’1,3 per cento.
I cali in borsa sono certamente temporanei, ma fanno da promemoria per quanto valore possano acquisire le dichiarazioni di uno dei principali leader mondiale: e la questione, nel caso di Trump, diventa un problema per l’assiduità con cui spara colpi verbali su Twitter. Un’attività incessante già nota durante la campagna elettorale, tanto che gli strateghi del suo team pare gli abbiano più volte rimproverato certi atteggiamenti (ma sono indiscrezioni da dietro le quinte). Tra gli ultimi cronologicamente, l’attacco diretto contro un sindacalista dell’Indiana, sullo sfondo la vicenda della Carrier, ditta di condizionatori che stava sul punto di decentralizzare alcune linee di produzioni, ma poi è tornata indietro. Trump in un tweet ha accusato il sindacalista Chuck Jones di fare “un lavoro orribile” – “Quando attacchi un uomo che vive una vita normale e ha un lavoro ordinario è bullismo” ha commentato al New York Times Nicolle Wallace, che ha diretto la comunicazione per il presidente George W. Bush (il Nyt aveva intitolato quel pezzo in cui è citata Wallace “Trump as Cyberbully in Chief?”).
SPESE, SCONTI, POLICY
La critica agli F-35 è in piena linea Trump, che sostiene la necessità di razionalizzare gli investimenti sulla Difesa pur pensando ad aumentarli; è un po’ come in una trattativa commerciale, in fondo, gli attacchi possono servire come minaccia per ottenere sconti.
Il presidente infatti non può bloccare il programma nemmeno con un ordine esecutivo, visto che ormai sono stati stanziati (e pagati in parte) i finanziamenti, ma può minacciare di ridurre gli acquisti per ottenere un abbassamento dei costi – una politica simile è stata già adottata dall’amministrazione Obama negli ultimi due anni, ma con metodi più politici.
Richard Blumenthal, un democratico del Connecticut, dove ha sede la Pratt & Whitney, grande ditta che costruisce i motori degli F-35, ha detto che il programma solo nel suo stato supporta 2.000 posti di lavoro diretti e altre migliaia nell’indotto dei fornitori: un argomento retorico con cui attaccare politicamente le sparate del presidente, che cocciano con le promesse di campagna elettorale sulla volontà di incentivare il manifatturiero americano. Il rischio del contraccolpo però non è solo interno (il Pentagono ha da poco concesso l’ok provvisorio su nuovi step del programma): Australia, Giappone, Israele, Italia, sono soltanto alcuni dei paesi che hanno già ordinato gli F-35, e dove si sono anche sviluppate joint venture che coinvolgono ditte interne – per esempio, l’italiana Leonardo-Finmeccanica.
COLPIRE F35, UN’ATTIVITÀ ANTI-ESTABLISHMENT
Jeff Babione, program leader del progetto F-35, in una nota che arriva direttamente dalla Nevatim Air Base di Beer Sheva, in Israele, che è il primo paese a ricevere gli F-35 operativi dopo gli Usa, ha detto che la Lokheed Martin ha investito milioni per abbassare i costi complessivi effettivi del 60 per cento della stima progettuale. Ma quello degli F35 resta il più costoso programma della storia del Pentagono, e per questo si porta dietro tutta una serie di controversie, legate anche ad intoppi tecnici nel programma di sviluppo ed è entrato nell’immaginario degli argomenti su cui hanno alzato le armi retoriche i critici di Barack Obama. In generale gli attacchi al programma F-35 sono diventati uno dei vari simboli delle polemiche anti-establishment: in Italia, per esempio, poche ore dopo del tweet di Trump, i parlamentari del Movimento 5 Stelle hanno pubblicato un comunicato stampa sull’organo media del partito, il blog del comico Beppe Grillo, scrivendo che anche Roma avrebbe dovuto rivedere l’ordinazione dei caccia e chiudere i contratti cercando “un’exit strategy”, definendo “paradossale” il fatto che il governo italiano ancora porti avanti un programma “illogico e tecnologicamente obsoleto”.
SETTE GIORNI FA ERA TOCCATO A BOEING
Sette giorni fa sorte analoga era toccata alla Boeing: la compagnia era finita sotto il fuoco social del presidente eletto per via dei costi “fuori controllo” del nuovo Air Force One. Trump, parlando di una spesa per lui insostenibile dal valore di “4 miliardi di dollari”, aveva dichiarato (minacciato, se vogliamo) di voler cancellare il contratto. Anche in quell’occasione il titolo della società di Chicago era sceso – intorno all’1,5 per cento.
Sul proprio sito la Boeing aveva risposto con una nota ricordando che attualmente la compagnia è “sotto contratto per 170 milioni di dollari” e non di più. Cinque giorni più tardi Teheran ha diffuso la notizia di aver chiuso un accordo da 16,8 miliardi di dollari proprio con la Boeing per 80 aerei passeggeri: si tratta del più grande contratto che una ditta americana chiude con l’Iran dal 1979, ed è frutto dell’abolizione delle sanzioni conseguente al deal sul nucleare iraniano. L’accordo contro cui Trump si è già posizionato e insieme a lui svariati membri della futura amministrazione.
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